Lunga intervista della Gazzetta dello Sport all'ex arbitro Paolo Casarin. Ecco alcune dichiarazioni interessanti.
Si ricorda il primo fischio della sua vita?
«E chi se lo scorda, avrò avuto 4-5 anni. Ma calcio e arbitri non c’entrano: è stato il sibilo delle bombe sganciate, cui seguivano le esplosioni. Io sono nato nel 1940, durante la Seconda guerra mondiale...».
Casarin, partiamo dall’inizio...
«Sono nato a Mestre, la mia famiglia abitava vicino alla Ferrovia, ma per evitare i bombardamenti ci trasferimmo da parenti in una casa di campagna lungo il tratto ferroviario Venezia-Trieste tra Portogruaro e Latisana. La notte andavamo a dormire nei fossi per paura delle bombe e l’inverno stavamo spesso nella stalla perché gli animali davano calore. In quegli anni è nato l’amore per il pallone: ci mancava tutto, ma una palla c’era sempre, vera o di stracci, per un momento di gioco e di aggregazione. Papà e mamma sono ancora sepolti lì, ma quella casa dove con i miei occhi vidi la Guerra, oggi non c’è più».
Qual è stata la prima partita arbitrata?
«Oderzo-San Donà di Piave tra i ragazzini, nel 1958. Avevo 18 anni: non ero bravo a calcio e scelsi l’arbitraggio, come occasione per stare insieme agli altri».
E l’ultima diretta?
«Inghilterra-Olanda agli Europei del 1988, vinse l’Olanda. Fu una degna chiusura di 30 anni di carriera».
Se le dico 23 maggio 1971?
«Facile: Bologna-Torino, l’esordio in Serie A, l’emozione più grande di tutta la mia lunga carriera arbitrale».
Aggiunga altre due gare da mettere sul podio.
«Inter-Milan il 27 marzo 1977, capitani Mazzola e Rivera, l’ultimo derby tra loro e l’unico milanese che ho diretto. A quei tempi non era pensabile che chi vivesse a Milano lo arbitrasse. Ne ho diretti tanti altri in altre città e decine di sfide di cartello a Torino, Roma, Napoli ma il derby di Milano mi ha fatto amare il calcio: perché San Siro è... San Siro. Quando entri in campo senti il cuore della gente che batte. Facciano pure nuovi impianti, ma non tocchino San Siro, un monumento. La terza partita è Germania-Spagna al Mondiale del 1982. La Spagna era stata molto spinta in quanto nazione ospitante. Ci si giocava la carriera, ma non mi feci condizionare: vinsero 2-1 i tedeschi».
Il darsi del tu in campo con i giocatori le ha procurato problemi?
«In uno Juventus-Torino, Cabrini dopo un intervento falloso subito si lamentò: “Paolo, guarda cosa mi hanno fatto”. Vinse la Juve, a fine partita dieci giornalisti mi aspettarono fuori dallo spogliatoio: “Casarin, è vero che i giocatori della Juve le danno del tu?”. Era stato Moggi, dirigente del Torino, a montare il caso per screditarmi. Mi salvò Radice, tecnico granata, che sentì e uscendo davanti a tutti mi salutò: “Ciao Paolo, hai fatto un’ottima partita...”. Capirono che non usavo due pesi e due misure».
Calciopoli?
«Capii che non volevano uno indipendente come me. Avevo stabilito che un arbitro non potesse arbitrare più di tre volte la stessa squadra, questo consentiva turnazione e difesa anche delle squadre più piccole. Andato via, cambiarono subito tutto».
Ma è vero che gli errori alla fine del campionato si compensano?
«No, è una cazzata. Ci sono stati tanti campionati decisi dagli errori».
Lei ancora studia calcio, le regole, pensa al futuro del pallone e degli arbitri.
«Il cambio di regole rischia di uccidere questo sport, basta studiare la storia per capire che dal 1950 non si è mai segnato più di 3 gol di media a partita in nessun torneo europeo. O che il tempo effettivo è sempre lo stesso, circa 60 minuti. Il calcio è attacco e difesa, non vanno immesse regole che privilegiano solo una fase del gioco. Il Var è utile, ma deve essere più veloce nelle decisioni per non destare dubbi. Ma io non mi occupo tanto del calcio milionario, che rappresenta il 3 per 100 del Sistema totale, sono più attento e preoccupato per il restante 97, quello della base. Bisogna riportare i giovani e gli arbitri a giocare. Se sei in campo, magari non cadi in altre tentazioni sbagliate».
Secondo lei, qual è l’essenza del calcio e la sua bellezza?
«È che fa giocare tutti. Chi è in campo, chi arbitra, chi lo guarda, chi lo commenta. Partecipiamo tutti, con ruoli diversi. E non dobbiamo mai dimenticarci che siamo sempre protagonisti di un gioco».
Autore: Alessandro Cavasinni
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