Nel grande teatro del calcio europeo, poche squadre possono vantare un percorso tanto ricco e sfaccettato quanto quello dell'Inter nell'attuale Europa League. Certo, le glorie della Coppa dei Campioni e della Champions – 1964, 1965, 2010 – sono scolpite nella pietra. Ma anche nella vecchia Coppa UEFA si respirava la costanza, l'ingegno e quella grinta silenziosa che non faceva rumore pur lasciando il segno.
Per l'Inter, questo torneo non era mai stato un semplice ripiego. Semmai, una rampa di lancio nei momenti di transizione, scoperta di nuove idee tattiche, una vetrina europea che ha sempre contato eccome. I tre titoli negli anni Novanta e le due finali sfuggite di poco raccontano una squadra ambiziosa ma coi piedi per terra.
In questa coppa, i nerazzurri hanno costruito una storia parallela alla Champions: diversa sì, ma niente affatto minore. Un'altra prova della loro anima profondamente internazionale.
1990/91: l'inizio dell'epopea con Trapattoni
Tutto comincia lì, nella stagione 1990/91, quando l'Inter, sotto la regia del maestro Giovanni Trapattoni, alza al cielo la sua prima Coppa UEFA. Trapattoni era l'essenza dell'italianità calcistica – ordine maniacale, disciplina di ferro, ma anche l'occhio clinico per colpire al momento giusto. La squadra? Era un mosaico ben calibrato di veterani e fuoriclasse, con quella spina dorsale italo-tedesca che dava peso e spessore.
Il cammino verso il trofeo è regolare, ma tutt'altro che banale. Dopo aver eliminato avversari tosti, arriva la semifinale contro lo Sporting Lisbona – un 2-0 secco e un lavoro pulito. Poi la finalissima, col derby tutto italiano contro la Roma. All'andata, a San Siro, l'Inter è chirurgica. Matthäus, glaciale dal dischetto, e Berti, con inserimento da manuale, firmano il doppio vantaggio. Al ritorno, all'Olimpico, i giallorossi vincono 1-0, ma non basta.
Quel trofeo, per l'Inter, è molto più di una coppa. È una dichiarazione d'intenti: anche quando in patria le cose si complicano, in Europa i nerazzurri sanno accendersi. Una vittoria figlia del pragmatismo, della solidità e del sangue freddo. Le armi di chi sa vincere quando conta davvero.
1993/94: il paradosso Bergkamp e il trofeo salvifico
La stagione 1993/94 è un vero rompicapo per l'Inter con un'altalena emotiva che sfiora il dramma e finisce in trionfo. In campionato è notte fonda: il tredicesimo posto, a un soffio dalla retrocessione – roba da incubi. Ma in Europa, ecco la metamorfosi. La Coppa UEFA diventa rifugio, ossigeno, quasi un'ossessione positiva.
Dennis Bergkamp è in trance agonistica: segna otto gol, danza tra le difese con eleganza nordica e freddezza assassina. Dopo aver lasciato a terra il Borussia Dortmund ai quarti e il Cagliari in semifinale, l'Inter approda alla doppia finale contro il Casino Salisburgo. Due partite, due vittorie per 1-0. Prima ci pensa Berti, poi Jonk – dei colpi chirurgici, senza fronzoli.
Questo trofeo non è solo una coppa da esporre. È una boccata d'aria pura in una stagione tossica. È la prova che l'Europa può salvare, quando tutto sembra franare. Con gente come Zenga e Bergomi a guidare lo spogliatoio, e una squadra capace di chiudere fuori il rumore interno, l'Inter trova in questa cavalcata un'àncora emotiva. Insomma, è una vittoria che non cancella il caos, ma lo rende sopportabile.
1997/98: Ronaldo, Simoni e l'apice di un progetto
La stagione 1997/98 è l'anno in cui tutto si incastra alla perfezione. L'Inter, fresca di rivoluzione, accoglie Ronaldo – un fenomeno vero, pagato a peso d'oro – e lo mette al centro di un'idea. In panchina c'è Luigi Simoni, uomo pacato ma lucidissimo, che rinuncia a gabbie tattiche per lasciar respirare il talento. La squadra lo segue, lo protegge, gli crea lo spazio per colpire.
Il percorso europeo è una marcia determinata. In semifinale, tra freddo e neve, l'Inter piega due volte lo Spartak Mosca con due 2-1. Poi la finale, con il Parco dei Principi di Parigi a fare da teatro, contro la Lazio. È una serata perfetta: Zamorano sblocca, Zanetti raddoppia con una perla, e poi Ronaldo – il Fenomeno – salta mezza difesa, infila il terzo e si prende la scena. "Man of the Match", ovviamente.
Quel 3-0 è più di un risultato: è la consacrazione di un progetto costruito intorno all'unicità. Simoni orchestra senza costringere, il gruppo lavora all'unisono, e Ronaldo… fa Ronaldo. Una lezione limpida: nelle notti d'Europa, il talento puro – se sostenuto bene – può davvero decidere tutto.
1996/97 e 2019/20: due finali, due sconfitte significative
Nella storia europea dell'Inter, accanto ai trionfi brillano anche due finali perse che riflettono momenti di svolta profondi. La prima arriva nel 1996/97, con l'Inter di Roy Hodgson impegnata contro lo Schalke 04. Dopo la sconfitta per 1-0 in Germania, i nerazzurri pareggiano i conti al ritorno grazie a Zamorano, ma ai rigori crollano. È una caduta dolorosa, in una squadra ancora imprigionata nella concezione tattica figlia degli anni Novanta in Italia. Vale a dire attenzione difensiva, ritmo basso, poca imprevedibilità. Manca quel guizzo europeo capace di fare la differenza nelle sfide secche.
23 anni dopo, nel 2020, l'Inter di Antonio Conte scrive un'altra storia. Dopo aver dominato nei turni precedenti, eliminando tra le altre Getafe, Bayer Leverkusen e Shakhtar, arriva in finale contro il Siviglia. A Colonia, in uno stadio vuoto per la pandemia, Lukaku segna su rigore ma poi è protagonista sfortunato dell'autorete decisiva. Finisce 3-2 per gli andalusi, ma l'Inter manda un messaggio chiaro – è tornata competitiva in Europa.
L'evoluzione tecnica e le filosofie degli allenatori
Il viaggio dell'Inter in Europa League è stato finora come uno specchio che riflette la sua evoluzione tattica, stagione dopo stagione. È stato una storia fatta di idee diverse, tutte cucite su misura, in base al momento, agli uomini a disposizione, e a chi sedeva in panchina. Ogni allenatore ha lasciato il proprio timbro, modellando la squadra come un artigiano che lavora il legno.
Nell'annata 1990/91, Giovanni Trapattoni costruisce un castello difensivo solido come la roccia. Zona mista, rigore quasi militare, verticalizzazioni taglienti – il suo calcio non brillava di estetica, ma faceva male, eccome.
Tre anni dopo, Giampiero Marini prende in mano un'Inter ferita e sceglie la via più diretta – dunque pochi fronzoli, massima concretezza. In altri termini: compattezza, attenzione, e l'idea chiara che ogni errore poteva costare tutto.
Poi arriva Luigi Simoni, nella stagione 1997/98. E lì cambia tutto. Con Ronaldo a guidare l'orchestra, l'Inter diventa più liquida, quasi costruita intorno all'estro del Fenomeno. Il collettivo era al servizio del genio.
Infine, Antonio Conte, nell'annata 2019/20, riscrive il copione con un 3-5-2 moderno – con pressing, transizioni lampo e corsie laterali che sembrano autostrade.
Il filo rosso era costituito dalla flessibilità. L'Inter non ha mai seguito dogmi, ha sempre scelto la strada più adatta al momento. E proprio questa duttilità l'ha sempre resa viva e pericolosa in Europa.
Le campagne europee "minori": tra ottavi, quarti e prime fasi
Il cammino europeo dell'Inter ha visto anche stagioni più silenziose, meno celebrate, ma tutt'altro che irrilevanti. Anzi, sono proprio queste campagne "minori" ad aver tenuto accesa la fiamma internazionale del club nei momenti di transizione.
Negli anni Settanta e Ottanta, l'Inter c'è, eccome se c'è. Partecipa con costanza e, tra il 1984 e il 1986, arriva due volte di fila fino alle semifinali. In entrambi i casi, però, è il Real Madrid a chiudere la porta in faccia.
Con l'arrivo del nuovo millennio, la Coppa UEFA si trasforma in un terreno di battaglia alternativo alla Champions. Nel 2001/02, l'Inter arriva fino in semifinale, ma si arrende al Feyenoord. Due anni dopo, nel 2003/04, cede ai quarti contro il Marsiglia.
Più difficili sono le stagioni circa un decennio più tardi. In quella 2012/13 l'eliminazione agli ottavi contro il Tottenham brucia – stessa somma reti, ma beffa coi gol in trasferta. Nelle annate 2014/15 e 2018/19 sono il Wolfsburg e l'Eintracht Francoforte a dire stop, sempre agli ottavi. Nel 2016/17 arriva invece il punto più basso con l'eliminazione nella fase a gironi.
Campagne altalenanti, sì, ma fondamentali. Perché anche qui l'Europa resta uno specchio fedele: mostra sogni incompiuti, esperimenti in corso e la voglia, mai spenta, di tornare grandi.
E forse è proprio questa natura incerta e ricca di incroci inaspettati a rendere l'Europa League così seguita e analizzata. Anche da chi osserva il torneo attraverso strumenti come le piattaforme di quote e statistiche disponibili su Stake.com – dove ogni sfida racconta qualcosa in più dell'andamento di una stagione.
Il caso Conte: l'Europa League come rilancio globale
La stagione 2019/20 è una di quelle che lasciano il segno. Dopo anni di saliscendi post-Triplete, l'Inter riscopre l'Europa e sé stessa grazie ad Antonio Conte, chiamato per rimettere ordine e restituire fame da vittoria. Dopo il terzo posto nel girone di Champions, i nerazzurri scivolano in Europa League – e lì si accende la miccia.
Fuori il Getafe agli ottavi, poi il Bayer Leverkusen, infine lo Shakhtar asfaltato con un roboante 5-0 in semifinale. L'Inter viaggia a ritmo alto, compatta e feroce. Il 3-5-2 di Conte gira a meraviglia. Lukaku e Lautaro fanno paura, Brozovic dirige l'orchestra con sangue freddo, Young e D'Ambrosio corrono come forsennati sulle fasce.
Tutto sembra pronto per il colpo grosso, ma in finale contro il Siviglia arriva la doccia fredda. Una gara tiratissima, decisa da episodi e da una sfortunata autorete di Lukaku. Finisce 3-2 per gli spagnoli, ma l'Inter non esce sconfitta. Anzi.
Quella cavalcata è la prova del nove. Un biglietto da visita per il mondo intero. La squadra torna a contare, a essere temuta. E un anno dopo, con lo scudetto in mano, si capisce che la rinascita nerazzurra era già cominciata, in quelle notti europee.
Impatto fuori dal campo: prestigio, finanza e tifoseria globale
L'eredità dell'Inter in Coppa UEFA ed Europa League non si conta solo in trofei messi in bacheca. C'è molto di più: immagine, identità, visione. I tre trionfi europei degli anni Novanta – in un decennio a secco di scudetti – sono stati un'àncora fondamentale. Quando la Champions cambiava pelle e diventava un'arena per pochi eletti, ricca e affamata di audience, la Coppa UEFA offriva all'Inter un palcoscenico concreto per restare visibile, rilevante, desiderabile. Per i tifosi, per gli sponsor, per i campioni di passaggio.
In un'Italia calcistica spesso ingarbugliata, l'Europa ha rappresentato stabilità, respiro internazionale. E non solo in termini di prestigio. Anche dal punto di vista economico, le campagne continentali hanno inciso. Dopo il Triplete del 2010, con l'ombra del Fair Play Finanziario a stringere il cerchio, ogni euro contava. Ecco allora che la corsa fino alla finale del 2020 diventa strategica con oltre 110 milioni raccolti tra Champions ed Europa League – ossigeno per tornare a progettare.
Ma l'impatto più profondo è forse quello emotivo. L'Inter nasce "Internazionale", e nel DNA porta il gusto delle notti europee, anche quelle meno luccicanti. Quelle che parlano di battaglie, orgoglio e appartenenza. È lì che la tifoseria globale si riconosce: nelle vittorie, certo, ma anche nelle cadute combattute a testa alta.
Conclusione: un torneo da seconda fila, un'eredità da prima pagina
Per l'Inter, l'Europa League – e prima ancora la cara vecchia Coppa UEFA – non è mai stata una comparsa. Altro che premio di consolazione. È stato un terreno di confronto vero, un laboratorio dove ricostruire quando serviva, rafforzarsi quando si era già forti, e non smettere mai di sognare. Un terreno meno scintillante della Champions, sì, ma mai sterile. Al contrario: un terreno fertile, pieno di storie.
I tre titoli degli anni Novanta, le due finali perse in contesti diversi, non sono episodi sparsi. Sono capitoli di un racconto coerente: quello di una squadra che ha fatto dell'Europa una costante, non un lusso occasionale.
La Coppa UEFA prima e l'Europa League poi hanno offerto all'Inter spazio per crescere, sbagliare, imparare. Hanno dato forma a cicli tecnici, hanno testato idee, formato identità. Quando lo scudetto sembrava lontano e la Champions una montagna troppo ripida, ecco che tornava questa competizione a riaccendere la scintilla.
E anche oggi, in un calcio che cambia pelle a ogni stagione, quel torneo resta più che mai attuale. Dunque, una palestra di ambizione, un contenitore di memoria viva, un ponte tra quello che si è e quello che si vuole diventare.
Per questo, sì: torneo "di seconda fila" quanto vuoi… Ma con un posto fisso in prima pagina.
Autore: Redazione FcInterNews.it / Twitter: @Fcinternewsit
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