Helios Herrera è il figlio di Helenio, leggendario allenatore della Grande Inter. La Gazzetta è andato a intervistarlo, lui che adesso è professore di economia alla Columbia University. Ecco quello che ne è venuto fuori, con aneddoti e prelibatezze dal passato glorioso nerazzurro.

"Il destino del professor Helios Herrera sembrava segnato: avrebbe fatto il calciatore. Invece, a 17 anni comunicò a suo padre Helenio che il football non faceva per lui e avrebbe provato la carriera accademica. Ci accoglie dentro un ufficio della Columbia University, l’inequivocabile segnale che nel suo campo, la macroeconomia, Helios è uno che ce l’ha fatta. Un solo grande rimpianto, non essere riuscito a dimostrare al suo celebre papà che anche fare il professore lo avrebbe portato in alto. Dice: «Due mesi dopo aver ottenuto il dottorato alla New York University è morto. Non ce l’ha fatta a vedermi guadagnare i primi soldi: era una delle cose cui teneva, oltre che applaudirmi sui campi di calcio». Helios premette: «Me l’avesse chiesto qualche tempo fa, non avrei mai accettato di parlarle di mio padre. Ora mi sembra il modo più bello per ricordarlo». Così attacca il suo lungo racconto: «Non l’ho mai visto vecchio, pur essendo nato quando aveva 62 anni. Si teneva in forma ogni mattina con lo yoga, viaggiava, era sempre di buonumore, cantava e pure da anziano era un inguaribile donnaiolo».

«Il mio primo ricordo di lui è buffo: scendendo da una barca scivolò su delle alghe e finì in acqua. Quello calcistico è legato al Barcellona, l’anno in cui sedette sulla panchina blaugrana. Poi, quando lasciò, non avendo più una squadra decise di allenare me. Era la sua idea fissa: avrei fatto il calciatore. Non aveva avuto il privilegio di studiare, veniva da una famiglia con pochi mezzi. I miei nonni, spagnoli, andarono a Buenos Aires in cerca di fortuna, ma furono fra i pochi emigranti a non trovarne. Così fecero marcia indietro e si sistemarono a Casablanca. Papà non ha mai dimenticato la povertà, gli era rimasta nel sangue. Forse per questo non abbiamo mai vissuto nel lusso. A casa rastrellava gli spiccioli e se li metteva in tasca».

«Io non sapevo ancora camminare che avevo il pallone fra i piedi. Ero la sua ultima speranza. Aveva provato con due figli degli altri due matrimoni. Mi diceva sempre che il primo aveva grinta m anon la classe, il secondo solo il talento. Io ero quello che possedeva entrambi. Sono stato allenato a tempo pieno: veniva sempre a vedermi con le giovanili del Venezia e negli ampi e lunghi corridoi di casa piazzava delle sedie e me le faceva dribblare. Era severo. Se giocavo male, non mi parlava per tutta la cena. Se avevo fatto una bella partita, era felice. Io, però, non mi vedevo così bravo come sosteneva lui, anche se era famoso per il fiuto con cui scopriva i talenti. Facchetti è stata la sua grande creatura. Nessuno lo voleva, ma lui gli diceva: "Vedrai, andrai in Nazionale". A me il calcio piaceva. Ma forse nel mio intimo volevo crearmi una strada indipendente. Fossi diventato un calciatore sarei sempre stato il figlio di Helenio Herrera. Andavo bene a scuola, così a 17 anni lo affrontai: "Papà, io vorrei smettere con gli allenamenti e andare avanti con gli studi". Mi iscrissi a Fisica a Pavia. Ci rimase male e non credo che abbia mai capito che cosa fosse quella università. La sua risposta fu: "Ok, niente calcio, ma quand’è che porti a casa i soldi?". Quando una volta gli parlai di alcuni dubbi che avevo sul piano di studi, con quel suo italiano sgrammaticato mi disse: "Se fosse tu, ricomincerebbe ad allenarsi". Non si era ancora arreso».

«Ho sempre pensato che mio padre fosse nato nel 1916, solo in un seguito ho saputo da uno dei miei fratelli che era nato nel 1910. Negli anni 50 si era cambiato la data di nascita sul passaporto e da allora aveva sempre mentito. Era fissato per il calcio, ma non era un tifoso. Io tengo all’Inter e anche lui era nerazzurro, ma non l’ho mai visto saltare sul divano o emozionarsi per un gol. Forse perché viveva lo sport in maniera professionale. Amo Mourinho perché me lo ricorda molto. Mio padre aveva precorso i tempi: era un comunicatore, un provocatore e le sue conferenze stampa non erano mai banali. Usava frasi da sbruffone come: "Vinceremo senza neppure scendere dall’autobus". In Spagna ancora oggi lo ricordano per una sua famosa esternazione: "In dieci si gioca meglio che in undici". Era uno psicologo. Ed è assolutamente vero che metteva la foto di Di Stefano sul comodino di Tagnin, perché se lo sognasse anche la notte. Rispetto a Mourinho, però, era più selvatico, meno sofisticato. Per via della sua estrazione. Mia madre Flora, giornalista di moda, aveva vent’anni di meno ed era di classe medio-alta. Lo sposò e si mise in testa di sgrezzare il sudamericano che girava con i braccialetti d’oro al polso. Papà era focoso, istintivo e ci faceva rigar diritto: a volte ci picchiava. Oggi (ieri, ndr) avrebbe compiuto 102 anni, mi manca tantissimo»".

Sezione: FOCUS / Data: Mer 11 aprile 2012 alle 09:24 / Fonte: Gazzetta
Autore: Alessandro Cavasinni
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