Primi in classifica, con un gioco bello e riconoscibile, una squadra unita e giocatori clamorosamente recuperati. Una prestazione sontuosa, contro un avversario storicamente rognoso, davanti ad un pubblico di gran lunga numericamente più presente di qualunque altra squadra in Italia. La piacevole ed estatica sensazione di un riscatto dopo anni umilianti, con una squadra che sta regalando prestazioni in costante crescita.
È stato davvero sorprendente vedere l’Inter dominare il Chievo, arrivato a San Siro con un curriculum di questo campionato che lasciava presagire ad un pomeriggio difficile, specie per le contemporanee assenze di Miranda, Vecino e Gagliardini a favore di Ranocchia, Brozovic e Joao Mario, i cui rendimenti non davano garanzie. È stato quasi commovente vedere Ranocchia giocare bene tutta la partita, anticipare, saltare di testa sfiorando due volte il gol, non avere paura, giocare la palla senza ricorrere al disarmante lancio lungo. Bello vedere un giocatore tanto spernacchiato, deriso e diventato simbolo degli anni della mediocrità, essere applaudito da un pubblico feroce che, nel contempo, ha il desiderio di vedere la redenzione dell’eroe in negativo. La stessa aspirazione di vedere Santon giocare con quello standard che sette anni prima sembrava alla sua portata. Così ci si è ritrovati a vedere i due insieme, arrembare nella prima parte di gara, con iniziative, tiri dalla distanza e un ordine nelle giocate che emozionava. Si tratta di due difensori che, come Nagatomo, gli interisti speravano di veder giocare bene anche perché avevano l’aria di essere bravi ragazzi di talento. Ti arrabbiavi ma, come ogni tifoso, hai l’intima convinzione che se l’Inter prende qualcuno è il futuro Rummenigge, il nuovo Roberto Carlos o Mazzola. Il pubblico dell’Inter ha adottato anche Centofanti, acclamato Jonathan, applaudito Pistone, semplicemente perché erano dei nostri, indossavano il nerazzurro e prima o poi avrebbero mostrato il loro valore.
Qualche volta ha pure funzionato ma solo per poche partite. Qui invece Spalletti ha mostrato la via e dimostrato che in molti giocatori, incasellati come modesti, c’era più stoffa di quanto si fosse disposti ad immaginare. Ha lavorato sulla testa, un argomento maledettamente sottovalutato nel calcio, eppure evocato di continuo, come una leggenda che ognuno conosce a modo suo. Tutto bello e meraviglioso con poco da criticare. Quando le cose vanno bene ma bene veramente, è difficile trovare difetti, scovarli e descriverli. È esattamente quello che ho fatto in questi ultimi anni, con la complicità non richiesta di una società che commetteva errori clamorosi in un lungo periodo di transizione tra le tre proprietà (Moratti, Thohir e Zhang).
È bello godersela dunque ma, proprio come quando le cose vanno male, vanno compresi i motivi, andrebbe capito come una squadra rimasta identica all’anno prima, modificata ma non rivoluzionata, stia rendendo tanto. Perché le cose non vanno solo meglio, vanno proprio benissimo e sarebbe utile capire nei dettagli i meccanismi che stanno determinando un livello tanto alto, anche in giocatori che non lo hanno mantenuto per più di cinque o sei partite in una stagione, con qualunque altro allenatore.
Oltre a Spalletti c’è una società che finalmente lavora sulla squadra durante la settimana, una proprietà importante con grandi ambizioni, un gruppo di giocatori dal talento più disciplinato e un pubblico dall’impatto devastante. Se San Siro diventasse ancora più omogeneo nella modalità del tifo, sarebbe lo stadio più caldo d’Europa ma va già bene così. Sono felice di poter scrivere un articolo spensierato, senza il tarlo della sconfitta che potrebbe arrivare già con la Juventus sabato sera, con la solita Lazio che a San Siro che da anni gioca partite spettacolari o magari in una partita banale. Oggi mi limito a dire che questa è una classifica anomala, con cinque squadre in soli 7 punti e che Roma e Lazio hanno una partita in meno. Inquieta dunque che mentre pensi di fare un campionato straordinario, basta un passaggio a vuoto e ti ritrovi a lottare per il quarto posto.
L’unica cosa che mi deprime è il livello molto basso a cui l’argomento calcio si sottopone. La settimana scorsa due tifosi (si fa per dire) mi hanno augurato di morire di morte violenta per aver criticato recentemente l’Inter e aver lamentato una deludente campagna acquisti rispetto alle premesse. Si possono dire cose giuste o sbagliate, a maggior ragione parlando di calcio ma oggi c’è questo mantra tribale da bimbominkia, che ha fatto diventare forma culturale di riferimento tifoideo, il concetto di scendere o salire dal carro. Puoi solo credere, obbedire e combattere. Quando si vince non devi discutere ma solo amare la squadra e incoraggiare i tifosi, senza segnalare alcuna crepa. Non obbedisco a questa logica da tifoso imbruttito ma spiace non potersela raccontare, approfondendo temi che questo sport e questa squadra offrono ogni settimana, solo perché diversi tifosi ti portano nel medioevo concettuale. Amala.
Autore: Lapo De Carlo / Twitter: @LapoDeCarlo1
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