Dicono che sette secondi siano più che sufficienti per innamorarsi. Psicologi e ricercatori, sostanzialmente, si interrogano assai di frequente sulla questione visiva e ormonale alla base del colpo di fulmine e, in anni abbastanza recenti, non pochi studiosi hanno convenuto sul dato dei sette secondi. Affidare agli stessi uno studio sul pubblico interista, siamo sicuri, produrrebbe esiti affascinanti: quanto occorre a una platea di bocca buona, qual è quella nerazzurra, per riconoscere che un giocatore ha pieno diritto a indossare gli amati colori? Finita la ricerca, i risultati acquisiti potrebbero senz'altro evidenziare che San Siro, tutto sommato, ci mette poco. Potremmo tranquillamente chiamarla la ‘Legge di Karamoh’: un giovanotto imberbe e dai colpi poco noti entra sul finire di una gara in bilico e, fin dal primo tocco di palla spavaldo, desta sugli spalti l’irresistibile desiderio di goderne ancora, e ancora. Di contro, il pubblico interista è spesso assai pronto a fornire ben poco credito a chi, all’impatto col Meazza, mostra un atteggiamento esitante, impaurito, o fin da subito inadeguato. Figurarsi, poi, quando un giocatore produce per anni dubbi e angosce negli occhi di chi lo guarda: arrivati a quel punto, la sua credibilità sembra ormai irrecuperabile, e il calciatore in questione finirà per convivere male con questo peso, esprimendosi ancor peggio fino all’inevitabile cessione, che l’ambiente accoglierà con sollievo. È la ‘Legge di Kondogbia’, e raramente si scappa.

In quest’ottica, la standing ovation riservata da San Siro a Yuto Nagatomo, quando il giapponese sul finire di Inter-Sampdoria ha lasciato spazio all’ingresso di Santon, viola ogni legge e ogni casistica. Il terzino nipponico è sbarcato a Milano nel gennaio 2011, in un momento in cui le labbra di tutti erano ancora a gustarsi i trionfi dei mesi passati, e non sembrava concepibile un ritorno in tempi brevi in quel purgatorio da cui si era finalmente tornati a vedere la luce. In anni di vacche magre o magrissime, a seconda dei casi, Nagatomo ci ha messo non poco di suo: tocchi di palla da brivido, svarioni importanti, l’ultimo dei quali ha consegnato al Napoli la sfida dello scorso 30 aprile, quando l’ex Cesena ha di fatto regalato a Callejon la matematica certezza di battere Handanovic, lì a due passi dalla porta. Ogni estate, di fatto, da queste parti arrivano terzini, spesso molto quotati a livello internazionale, di sicuro pronti sulla carta a relegare in panchina il giapponese, per il quale molti auspicano con incessante regolarità una separazione definitiva dalle cose interiste. Durante la stagione, poi, per qualche ragione Nagatomo risale la china, e ce lo ritroviamo lì, sull’out di sinistra, a correre per dieci e a svirgolare qualche pallone decisivo, cosicché, all’alba di maggio, il problema si è già riproposto più volte in tutta la sua drammaticità.

Quest’anno, lo stesso copione: un Dalbert frenato e a tratti in forma angosciante ha convinto Spalletti a riproporre l’instancabile giapponese e nessuno, nell’ambiente, ha potuto evitare di storcere il naso, rintracciando inevitabilmente nella sua ostinata presenza i sintomi e le cause di un eventuale ennesimo insuccesso. Alla luce del suo passato, e della sempre non facile riabilitazione di un giocatore ormai bollato da tutti i commentatori, l’opera compiuta da Spalletti ha un che di incredibile, tanto più se si considera che Nagatomo è in buona compagnia. I calciatori insperabilmente recuperati alla causa dal tecnico di Certaldo sono tanti: hanno ora piena dignità e pieno diritto di indossare quella maglia, sentono intorno a sé calore e fiducia, sono artefici del proprio destino. Anche prima, in quasi tutti questi casi, non mancava l’impegno e la dedizione: di lì alla riuscita della giocata e della prestazione, però, ce ne passa, e dunque il loro lavoro settimanale era irrimediabilmente rovinato dalla brutta figura della domenica. Adesso, invece, tutto torna, e i loro sforzi hanno giustizia: non si offenderanno, perciò, se li chiamiamo miracolati. C’è qualcosa di subitaneo e magico in questo percorso, una sterzata improvvisa che promette di poter essere duratura; il tocco di una mano sapiente o, chissà, la ritrovata fiducia nel proprio lavoro. Un miracolo, ma dei più laboriosi.

Che Nagatomo fosse l’esempio della disciplina tattica e comportamentale, nessun dubbio. Da terzino, peraltro, il giapponese ha raramente sbagliato un movimento difensivo, tanto è per sua cultura fedele ai dettami tattici che gli vengono impartiti. Di contro, c’erano brividi diffusi quando il baldo Yuto partiva all’attacco in modo un po’ caotico, e c’erano brividi se sui suoi piedi capitava un pallone da spazzare via senza se e senza ma. La beffa era dietro l’angolo. Sull’altra fascia, negli ultimi anni, gli si è affiancato un D’Ambrosio talvolta valido, altre volte apparso inadeguato ai compiti di un terzino da grande squadra. Nella maledetta stagione scorsa, perfino Miranda aveva imparato a far inorridire il suo pubblico con scelte confusionarie e pericolose nel posizionamento difensivo e nella gestione del pallone quando si trattava di ripartire. Più in là, il talento di Brozovic era andato in vacanza anzitempo, sommerso da un atteggiamento scanzonato e menefreghista; Candreva, dal canto suo, non convinceva e non alzava la testa, o non la alzava in quanto non convinto di cosa potesse fare, e lo stesso Perisic non rinunciava a enormi pause dalla sua indiscussa qualità.

Tutti questi ragazzi, oggi, sono ripartiti dai propri punti forti e hanno apparentemente dimenticato le proprie debolezze: rendono al massimo delle proprie possibilità, qualcuno da buon giocatore qual è, qualcun altro approssimandosi a livelli da campione, dopo che questo passaggio decisivo gli era parso impossibile con la maglia nerazzurra addosso. È presto per garantire che possa durare e, dunque, è presto per i giudizi, ma la fiducia, come il suo opposto, scorre rapidamente in tutto il corpo e tende a non lasciarlo facilmente: i presupposti, dunque, sono fantastici, e il recupero di questi singoli alla causa nerazzurra potrebbe anche essere un’acquisizione definitiva. Conta soprattutto che siano finalmente reputati degni di una maglia pesante, prima di tutto da parte della propria consapevolezza. È certo il miracolo di Spalletti, ma è anche il miracolo dei loro sforzi. Se pure Santon e un Joao Mario un po’ imbambolato rientreranno in questa casistica, si potrà parlare di una nuova legge. Sarebbe la dimostrazione che una guida salda, precisa e serena, nel calcio, può molto, soprattutto se all’ombra di una società finalmente definita. Nel caso, la chiameremmo senz’altro la ‘Legge di Spalletti’: è una regola rivoluzionaria per cui, se si vuole, si può arrivare anche lì dove non si era mai sperato.

Sezione: Editoriale / Data: Ven 27 ottobre 2017 alle 00:00
Autore: Antonello Mastronardi / Twitter: @f_antomas
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