Ci sono stati giorni in cui ho pensato di non voler più seguire il calcio. Sì, l'ho pensato. Perché ci sono stati momenti in cui mi sono quasi vergognata di appartenere, anche indirettamente, come appassionata e come giornalista, a un mondo che stava dimostrando di essere fuori dalla realtà. Un mondo che ha svelato la sua natura peggiore, i suoi istinti più bassi, le sue priorità dannose. Un mondo trainato da egoismi, faziosità, interessi.

Ho iniziato molto, ma molto, prima ad andare a San Siro che a camminare. Il calcio e l'Inter sono sempre stati, per me, una questione di famiglia, di cuore. Sono cresciuta in mezzo a gente che guardava le partite, tifava, discuteva, giocava, si prendeva in giro, si ritrovava al bancone del bar a bere una birra offerta da un "avversario" per poi offrirgliene una a sua volta.

Lo sport e il calcio, poi, da passione, coltivata fin da piccola, si sono trasformati in un mestiere: sono stati, per un periodo, il mio lavoro e, in parte, lo sono ancora. Per mia gran fortuna, ho sempre pensato. Poi sono arrivati quei giorni lì. Quei giorni in cui una notizia inizialmente lontana migliaia di chilometri è arrivata nei quartieri e nelle case di ognuno.

L'emergenza coronavirus, che sta modificando abitudini e stili di vita, ha piano piano intaccato ogni ambito e aspetto della vita sociale ed economica. Dalle istituzioni alla comunità scientifica, difficile trovare chi non sia stato preso alla sprovvista, chi sia riuscito a offrire letture chiare, men che meno soluzioni sicure. Ma il mondo del calcio, in tutto ciò, nella sua piccolezza, quasi nella sua insignificanza, è stato quello che ha offerto lo spettacolo peggiore. O per essere più chiari: il mondo del calcio si è reso protagonista di una "pagliacciata" (termine scelto non a caso).

In un momento particolare, complicato, dominato dalla paura per il presente ma anche dall'incertezza per il futuro, in un momento in cui ognuno, nel suo piccolo, quasi nella sua insignificanza, è chiamato a fare la propria parte, a non tirarsi indietro, a non sottovalutare indicazioni e precauzioni, a mettere da parte l'individualità in favore della collettività, ecco in questo momento qui, in cui senza distinzione alcuna sarebbe naturale e istintivo schierarsi tutti dalla stessa parte, ritenendo persino umanamente offensivo il non farlo perché di mezzo c'è il benessere di tutti noi, il calcio è riuscito a spaccarsi.

In un momento in cui sarebbe bastato sedersi tutti attorno a un tavolo, riconoscere l'importanza superiore e indiscutibile dell'attuale situazione che ci ritroviamo ad affrontare e trovare un accordo in un secondo senza nemmeno bisogno di discussioni: o fermiamo le partite, tutte, e i campionati, tutti, o, giochiamo a porte chiuse. Stop. Non si prendono il mercoledì decisioni che poi vengono ribaltate il sabato (salvo poi essere ripristinate una settimana dopo), non si chiude uno stadio la domenica pensando di riaprilo il lunedì o il mercoledì, non si ferma la Serie A continuando invece a mandare in campo la Serie B, non si lascia un campionato monco con squadre che hanno giocato due partite in più e altre due in meno, non si rinvia per ritrovarsi un calendario che non ha spazi a meno di sperare che l'Inter esca il prima possibile dall'Europa League.

La pretesa era quella di vedere club e dirigenti allineati su un fronte compatto che stabilisse priorità e regole per tutti, nell'interesse di tutti e con la chiara consapevolezza di che cosa sia giusto e sbagliato in questo momento. Invece è partito il balletto dell'assurdo tra chi le porte chiuse no, chi le porte chiuse forse e chi, termine ultimo della follia, pensava che magari dopo tre giorni le porte si potessero davvero, magicamente, o, per meglio dire, stupidamente, riaprire. Non si è guardato a un interesse e a un bene comune ma ognuno, racchiuso nell'orticello di un egoismo sterile, ha pensato ai propri interessi, al proprio tornaconto, ai diritti tv e via dicendo. Strumentalizzando, per altro, i tifosi che non rappresentano tanto un aspetto economico la cui presenza garantisce un determinato incasso o la cui assenza pesa per la necessità di un rimborso: i tifosi sono il motivo stesso per cui le squadre esistono: perché vengono appunto, scelte, tra tante, e sostenute, seguite, amate.

O tutti in campo o nessuno. E semmai la domanda giusta era: siamo disposti a giocare senza tifosi o siamo disposti a fermarci, a sospendere tutto con quello che ne consegue e che accettiamo, vista la situazione. Perché è chiaro che un calcio, o qualsiasi altro sport, a porte chiuse si ritrova a essere snaturato. Ma è chiaro anche che l'eccezionalità del momento attuale non prevede e non prevedeva alternative. Solo che questo lo si è capito dopo rinvii, polemiche, altri rinvii e altre polemiche. L'incapacità di prendere una posizione e mantenerla denota la fragilità di un palazzo arroccato in paranoie fuori dal tempo: queste sì, hanno danneggiato l'immagine del calcio italiano nel mondo, molto più di quanto non lo avrebbe danneggiato l'immagine di Juve-Inter a porte chiuse nella sua data originale.

L'incapacità di essere uniti e concordi persino su tematiche che riguardano la salute pubblica, di mettere per un attimo da parte tifo e interessi, di non voler a tutti i costi difendere una parte politica o attaccare l'altra conferma che alla base abbiamo un problema di civiltà. L'arrivo di un temporale che rende pericolante un edificio è solo la dimostrazione concreta di come quell'edificio sia marcio dalle fondamenta. E quindi non è affatto esagerato, né sbagliato nei modi, definire clown chi quell'edificio lo governa.

E il fatto che ci sia qualcuno, come Steven Zhang, disposto a gridare senza paura quali siano le priorità e quali le cose di cui vergognarsi, senza il timore reverenziale di dover risultare politicamente corretto, mi fa pensare che forse, sì, una speranza c'è ancora. Di poter seguire uno sport che non guardi solo gli interessi o le lotte di potere ma che abbia una sua etica e una sua morale, oltre che, naturalmente, l'esigenza di tutelare i suoi tifosi.

Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi ha descritto a lungo la peste: e nella sua lettura cristiana che tutto lega alla Provvidenza affida proprio a essa, alla Provvidenza, il compito di lavare l'epidemia con una pioggia divina dopo averla mandata come flagello a punizione dei malvagi. Chissà, se una pioggia salvifica possa esistere anche per un campionato ormai profondamente condizionato dalle decisioni (o non decisioni) di chi lo gestisce.

A proposito: Manzoni, nella parte finale di un capitolo deidicato alla peste a Milano, scriveva: "Sipotrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d'osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente piú facile di tutte quell'altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po' da compatire".

Sezione: Editoriale / Data: Dom 08 marzo 2020 alle 00:00
Autore: Giulia Bassi / Twitter: @giulay85
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