Lunedì 4 maggio 2015 è stato un giorno importante, anzi storico per gli appassionati di calcio. Si è celebrata la ricorrenza della tragedia di Superga, ricordando il Grande Torino, la squadra di tutti, anche di chi non la tifava. Poi a San Siro è stata ritirata per sempre la maglia dell'Inter numero 4, per diciannove anni appartenuta al nostro grande Javier Zanetti. C'è dibattito sul fatto se sia giusto o meno ritirare il numero di maglia di un grande campione che ha segnato un'epoca in una società di calcio. Chi è contrario si chiede se sia giusto negare la possibilità di indossare quella maglia ad un possibile campione del futuro. Chi è d'accordo, ritiene il gesto un segno di rispetto e di riconoscenza verso chi ha scritto pagine indelebili della storia di un club. Probabilmente anche in questo caso la verità sta nel mezzo, ogni situazione è diversa da un'altra e va valutata attentamente.
Nell'Inter Javier Zanetti segue Giacinto Facchetti. Non è un caso. Troppe similitudini tra i due, a parte le ultime quattro lettere dei cognomi. Due capitani, due fuoriclasse, due esempi di lealtà sportiva, Giacinto ha sentito, Javier sente, l'Inter, come una famiglia. E allora giusto così, giusto ritirare la maglia numero 4 di questo eterno ragazzo argentino naturalizzato milanese. Arrivò all'Inter nel lontano 1995, primo anno di presidenza Moratti, come ruota di scorta di quello che avrebbe dovuto essere il colpo di mercato, Sebastian Rambert. Ma del cosiddetto Avioncito si persero velocemente le tracce in nerazzurro, mentre Zanetti iniziò a farsi notare cavalcando le praterie degli stadi d'Italia e d'Europa.
Controllo di palla, corsa, strappi coast to coast. Caratteristiche che lo fecero diventare subito idolo della folla, quella folla che anche se sbagli un passaggio o mandi alto un tiro, apprezza l'impegno ed il sacrificio, il rispetto di se stesso e del pubblico che paga. Terzino destro e sinistro, mediano, poi vertice di un rombo, interno, anche difensore centrale. Javier Zanetti in campo l'ha esplorata un pò tutta l'Inter, fino a farla diventare seconda pelle. Ragazzo buono, rispettoso di tutti, solo Roy Hodgson riuscì a farlo imbestialire sostituendolo nella finale di Coppa Uefa a San Siro, il suo stadio, persa ai rigori nel 1997 contro i tedeschi dello Shalke 04.
La grande rivincita l'anno, dopo, con Gigi Simoni allenatore e Ronaldo il Fenomeno centravanti, quando dopo un campionato scippato, l'Inter conquistò la Coppa Uefa, il primo trofeo di Massimo Moratti, vincendo a Parigi la finale contro la Lazio. Un 3-0 senza se e senza ma, condito da un meraviglioso gol di Pupi con palla all'incrocio dopo un esterno destro da urlo. Ma la gioia durò poco, altre delusioni prima con Lippi e poi con Tardelli. Zanetti diventò Capitano dell'Inter nella stagione 1999/2000, in seguito all'addio al calcio di Bergomi. Un sogno nella testa, vincere in nerazzurro quello scudetto che mancava dall'88/89, quando trionfava l'Inter del Trap, l'Inter dei record.
La grande occasione nella stagione 2001/2002, quando con Hector Cuper in panchina la Beneamata riuscì ad arrivare all'ultima giornata prima in classifica, nonostante un campionato giocato quasi interamente senza gli infortunati Ronaldo e Vieri e i soliti torti abitrali che avrebbero preceduto calciopoli. Ma il sogno si infranse contro Il famigerato 5 maggio che coincise con la sconfitta nell'Olimpico interamente tinto di nerazzurro al cospetto di una Lazio incredula per tanta passività. Ronaldo in lacrime abbandonò la barca che affondava, i tifosi avversari ridevano intonando canzoni per ricordare come in casa Inter non si vincesse mai. Sembrava la fine di tutto, ma lui, il ragazzo argentino naturalizzato milanese con i capelli sempre in ordine e lo sguardo fiero, non mollò, nonostante ci fosse stato qualche anno prima l'interessamento di un club importante e vincente come il Real Madrid.
Zanetti sapeva che sarebbe bastato attendere qualche anno per esultare insieme alla sua gente. Dopo Calciopoli, il sogno si trasformò finalmente in realtà. Anni e anni di dittatura nerazzurra, 5 scudetti consecutivi, il Triplete con la splendida notte di Madrid e l'immagine scolpita nel cuore di tutti i tifosi interisti: Zanetti con la faccia sfigurata per la felicità che alza la Champions League poggiata sulla testa. Ma siccome l'appetito vien mangiando pochi mesi dopo, in quel di Abu Dhabi, alzò anche quella Coppa che premia la squadra di club campione del mondo. Come l'Intercontinentale nell'era della Grande Inter del Mago. Javier Zanetti aveva finalmente vinto tutto quello che c'era da vincere con la sua creatura, la sua Grande Famiglia come spesso ama dire.
L'addio al calcio giocato, a quasi 41 anni, coincide con l'arrivo all'Inter di Erick Thohir e il naturale ridimensionamento della posizione di Massimo Moratti. Qualche disorientamento iniziale, una carica da vicepresidente che sembrava più apparenza che sostanza. Ma con il passare dei mesi anche il nuovo management capisce il valore aggiunto di una persona così per un club come l'Inter. Ora Javier Zanetti è vicepresidente a tutti gli effetti, operativo, sempre con la squadra, insieme ai suoi colori. E lunedì sera l'amministratore delegato Michael Bolingbroke ha stupito tutti, ringraziando Javier parlando italiano.
Sì, è stato giusto, dopo la festa per la partita d'addio con la Lazio, ritirare quella maglia numero 4 dopo una partita spettacolo a scopo benefico e ancora al Meazza. Con l'applauso della Nord, con l'affetto della moglie Paula e dei tre bellissimi figli. Da lassù applaudivano anche Peppino e il Cipe. Cose da Inter.
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