Mia mamma era un medico. Io ovviamente sono di parte, ma era davvero brava. Conoscerete anche voi qualcuno che ha nel sangue il proprio lavoro, che sembra essere nato per quel determinato mestiere. Ecco, lei fa parte di questa categoria di persone. Venuta a studiare a Milano, si è laureata a pieni voti, pure con qualche mese di anticipo. Una secchiona, insomma. 

Ogni qual volta aveva un banale raffreddore, per evitare di contagiare i suoi cari o gli stessi pazienti, si metteva la mascherina. Come è giusto che sia. E come il protocollo prevede. Di fatto voleva solo proteggere la salute di chi le stava vicino. 

E quando qualcuno aveva bisogno di lei, c’era. Sempre. Per senso civico, di responsabilità. O semplicemente perché quando qualcuno non si sente bene, è normale provare ad aiutarlo.

Quindi pazienza se il telefono di casa squillava a orari improponibili. O rincasava tardi. La Dottoressa Di Falco doveva esserci. Sono cresciuto con questa mentalità. Da piccolino però, pur ammirando tanta dedizione al lavoro, non capivo sino in fondo il motivo di questo grande attaccamento al benessere degli altri.

Egoisticamente avrei voluto forse trascorrere più tempo con lei, figuriamoci se un mammone non vuole stare con la propria mamma.

Ma quando è salita in cielo qualche anno fa, e in Chiesa si sono presentate centinaia di persone per salutarla, compresi ovviamente praticamente tutti i suoi pazienti, ho provato una sensazione di orgoglio e benessere che mai e poi mai avrei pensato di vivere ad un funerale.

Che poi sia finita in prima pagina di un noto quotidiano locale col titolo: “Avrebbe lavorato fino a 100 anni” e che ancora oggi chi fosse in cura da lei ringrazi me e mio padre – che non abbiamo nessun merito – è il risultato di quanto di buono fatto in vita, grazie ad una sorta di empatia vincente che evidentemente ha portato benefici a più persone.

Ecco, in questi giorni direi che il ruolo dei dottori e degli infermieri è sotto l’occhio di tutti. Di fatto loro sì che sono degli eroi. In teoria svolgono “solo il loro lavoro”. Pensate che la società odierna rende miti assoluti dei ragazzi solo perché sono capaci di tirare quattro calci ad un pallone.  In realtà – e ha detto benissimo Rugani, al quale come per Gabbiadini, va il mio più grande e sincero in bocca al lupo – gli atleti sono dei comuni mortali. Certo, guadagnano più di noi e hanno realizzato il loro sogno di diventare professionisti. Ma davanti ai virus non ci sono distinzioni di classe o genere.

Per questo proporre di giocare Juventus-Inter con il pubblico, come richiesto dal Presidente della Lega Serie A Dal Pino, per “tutelare l’immagine della Serie A all’estero”, era a mio avviso una scelta irresponsabile. Tanto per capirci: l’altro giorno la tv polacca che trasmette la A mi ha intervistato. Il loro conduttore si è stupito e quasi non voleva credere che si fosse sottovalutato così tanto il problema. Altro che stadio vuoto. L’Italia del calcio – come molte leghe straniere adesso – ha fatto la figura di quelli che: “c’è solo il business”. Peccato però che senza pubblico, ciò non può proprio esistere. È lampante, consequenziale, vitale. 

Tutti quelli che hanno criticato Zhang dovrebbe chiedere scusa al Presidente dell’Inter. E vergognarsi di aver puntato il dito contro la parola pagliaccio (che a me non piace, ma che doveva necessariamente passare in secondo o terzo piano) rispetto all’intelligenza del messaggio lanciato.

Una nota ovvia, ma che evidentemente non lo era. O della quale ce ne si voleva fregare. Capisco – anche se non condivido per nulla – le critiche dei tifosi non interisti. Proprio perché supporters di questa o quella squadra ragionano da fans. È sbagliato, ma ci può stare. Ma tutti i professionisti invece che hanno inveito contro il numero uno nerazzurro dovrebbero dimettersi e cambiare mestiere. 
Quando sostieni l’esame per diventare giornalista professionista devi essere in grado di centrare il cuore della notizia. E nel caso di Steven era: “Stiamo rischiando la vita di tutti”. Non l’epiteto “pagliaccio”. Dando forza alla parola clown, si è riusciti a smorzare un messaggio importantissimo, a distoglierne l’attenzione. Posso anche accettare che la forma non sia piaciuta, ma chi non ha messo l’accento sulla sostanza, beh, deve porsi più di una domanda. 

Non è questione di fare la morale, anche perché io di cazzate nella vita ne ho fatte a bizzeffe. Ma nel mio piccolo credo davvero che ognuno di noi debba fare la propria parte. Altrimenti non se ne esce. 

Lo Juventus Stadium ha una capacità di 41.507 posti. Aggiungendo lo staff dell’impianto e quelli dei bianconeri e dei nerazzurri si sarebbe arrivati tranquillamente a 42.000. Ci vuole un genio per capire a cosa saremmo potuti andare incontro qualora anche solo pochissimi contagiati (magari asintomatici) si fossero recati alla partita?   

Pensare: “tanto a me non capita”, “è solo un’influenza da nulla”, o “chissenefrega di quello che dovrei fare, ragiono come dico io” è semplicemente da deficienti, nel senso strettamente latino del termine: si manca di intelligenza. 

Col denaro si compra (quasi) tutto. Beni di ogni tipo, case, vacanze. E purtroppo la storia è piena di individui che hanno venduto la propria dignità o sono diventati servi del padrone. Ma i soldi non servono nella tomba. E su questo siamo tutti d’accordo.

Sezione: Editoriale / Data: Ven 13 marzo 2020 alle 00:00
Autore: Simone Togna / Twitter: @SimoneTogna
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