Ancora una settimana e, il prossimo 29 ottobre in quel di San Siro, le più o meno recenti schermaglie verbali bianconerazzurre lasceranno finalmente spazio al campo, giudice inappellabile e fuori dalla competenza persino del tribunale di Marte, fantomatico foro che una larga fetta di tifosi di Del Piero e compagni, pur di dimostrare la vaneggiante tesi di una Calciopoli nata dalla congiura ordita dall’Inter nei confronti della Juventus, sarebbe in grado di chiamare in causa. Campo che, opportunamente sgomberato dalla porcheria delle sim svizzere e dei “ci mettiamo in mezzo” dei De Santis di turno, negli ultimi cinque anni ha visto il gruppo capitanato da Javier Zanetti inanellare magnificamente una coppa dietro l’altra ed i rivali torinesi alle prese invece con modestissimi settimi posti in classifica, leggendarie scoppole rimediate dal Fulham e indigesti preliminari di Europa League: dal luglio 2006 ad oggi, dodici scintillanti trofei per la Beneamata e, vittoria del campionato di Serie B a parte, nessuno per il club attualmente presieduto da Andrea Agnelli, dirigente insediatosi al timone diciotto mesi fa ma evidentemente non granché esperto delle leggi che disciplinano l’universo del pallone, tanto da poter credere di ribaltare un verdetto ampiamente già passato in giudicato (leggasi i due scudetti revocati alla fu banda-Moggi dalla giustizia sportiva che il “Giovin Signore”, addirittura in faccia ad un passivo Giancarlo Abete incapace d’intimare ufficialmente il rispetto di regole e sentenze, continua provocatoriamente ad ostentare e a sperare dunque di riottenere).
Un lustro dove, in virtù dei numerosissimi trionfi e dei diversi record conseguiti, la società nerazzurra ha indiscutibilmente rappresentato l’ossessione per eccellenza del popolo juventino, indefesso consumatore di Maalox dal momento in cui, in sede di processo, anche l’avvocato-difensore della loro squadra ne ammise la colpevolezza. Cinque stagioni che, al contrario, per i sostenitori interisti hanno disegnato una stupenda collana di emozioni da indossare eternamente sul cuore, così come trentadue anni orsono, in seguito forse alla più bella prestazione di sempre del Biscione contro gli acerrimi avversari piemontesi, indossarono ripetutamente un luccicante “Spillo” che, di lì a breve, da dorato sarebbe diventato tricolore.
Domenica 11 novembre 1979 era infatti in programma, in una Milano politicamente insofferente e avvolta d’autunno allora come oggi, il derby d’Italia tra i ragazzi allenati dal determinato ed esigente “Sergente di ferro” Eugenio Bersellini, mister dalle importanti doti tecniche ed umane, e la truppa bianconera di Giovanni Trapattoni: da un lato il carattere “operaio” del nucleo, più di sostanza che di qualità, allevato direttamente dal settore giovanile meneghino (Bordon, Canuti, Beppe Baresi, Bini, Oriali, Muraro) al quale si univa la geniale classe di Evaristo Beccalossi, dall’altro molti protagonisti del buon quarto posto mondiale raggiunto nel 1978 in Argentina dalla Nazionale di Enzo Bearzot (Zoff, Cuccureddu, Cabrini, Gentile, Scirea, Causio, Tardelli, Bettega). Su tutti, però, quel pirotecnico pomeriggio svettò la figura agile e longilinea di un timido attaccante ciociaro inizialmente scoperto da Fulvio Bernardini e arrivato all’ombra del Duomo, non ancora ventiduenne e con la suggestione d’andare a vestire la casacca tifata fin da bambino, nell’estate 1977: Alessandro Altobelli detto Spillo, la persona che il giorno di San Martino, con una pungente tripletta da sogno, avrebbe trafitto la Juventus e lanciato l’Inter alla conquista del suo dodicesimo scudetto, giunto al termine di un torneo tremendamente imbrattato dal Calcioscommesse, un enorme scandalo dal quale il club nerazzurro non fu nemmeno sfiorato ma che, tuttavia, fece precipitare in cadetteria le responsabili Milan e Lazio – non nuove quindi, come confermato da Calciopoli, a questo tipo di nefandezze – e punì ineccepibilmente diverse altre società e alcuni giocatori italiani d’indubbio talento.
Un ultimo campionato autarchico che, seppur indecentemente sporcato dall’immagine delle manette messe ai polsi di atleti e presidenti al triplice fischio delle partite datate 23 marzo 1980, la squadra del patron Fraizzoli comandò sin dal principio, spiccando definitivamente il volo con l’entusiasmante 4-0 inflitto l’11 novembre alla Vecchia Signora: roboante punteggio utile, una volta per sempre, a convincere della propria forza una straordinariamente compatta Inter ed al contempo capace di consacrare Altobelli alla stregua di una delle punte più forti e prolifiche dell’epoca, in grado d’intendersi e di sfruttare a meraviglia i tanti assist prelibati servitigli dall’amico Beccalossi, numero dieci dal sontuoso piede sinistro proveniente, come il filiforme centravanti di Sonnino, anch’esso dal Brescia.
Undici stagioni con la Beneamata, 466 presenze totali, 209 gol, un tricolore e due coppe Italia vinte prima di trasferirsi, al crepuscolo della carriera, proprio alla compagine bianconera per un’annata avara di soddisfazioni: con Dino Zoff in panchina, compagno d’avventura durante il vittorioso Mondiale spagnolo del 1982 che ha rappresentato per il riccioluto Sandro l’apice di un grande percorso agonistico coronato dalla rete in finale alla Germania Ovest, Altobelli tentò di disputare il conclusivo torneo di Serie A con lo stesso dinoccolato e veloce opportunismo in area di rigore che per oltre un decennio era stato il suo lampante marchio di fabbrica, racimolando però unicamente un misero bottino di appena quattro centri in venti match. Per un vorace cannoniere come lui (al quale tuttora appartiene il primato nerazzurro di gol realizzati in Europa, ben trentacinque) era quanto bastava a fargli capire che, perlomeno ad alti livelli, la corsa sul rettangolo verde era da ritenersi completata. Chiuse a Brescia, l’identico luogo da cui partì la formidabile ascesa che avrebbe fatto di Spillo l’uomo del triplete con la Juve. Pardon, contro la Juve.
Pierluigi Avanzi
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