Centrocampista tuttofare dell’Inter dei record, idolo dei tifosi ma soprattutto vero cuore nerazzurro: Nicola Berti è ottimista sul futuro grazie a un progetto “quasi del tutto entusiasmante” e un allenatore che “resterà all’Inter per i prossimi anni e avrà carta bianca sul mercato”. Una mentalità vincente che non muore mai, “bisogna puntare allo scudetto già dal prossimo anno”, e una passione mai calata per i colori della Beneamata al punto da aver iniziato a riallacciare i rapporti con la società. L’ex numero 8 si racconta tra passato, presente e futuro: “Anche a me capitava di essere fischiato dai nostri tifosi e una volta dovetti lasciare San Siro sul pullman della Samp. I giocatori attuali meritano un’altra occasione e io puntosoprattutto su Vidic, Guarin e Icardi. Un paio di acquisti e siamo da Tricolore”.
Rimpianti pochissimi, quasi nessuno, orgoglio tanto e mostrato senza paura: il temperamento, il carattere, il cuore e anche il sorriso sono sempre gli stessi. Nicola Berti ha mantenuto persino il passo svelto mentre camminiamo in cerca di un posto tranquillo per fare un’intervista, nel centro di Milano, la vera e unica casa, calcisticamente parlando, anche per un giramondo come lui. Filosofo dell’antimilanismo, centrocampista totale e tuttofare di un’Inter che letta nella formazione titolare con quei “Zenga, Bergomi, Brehme…” è quella in assoluto che meno impallidisce al confronto col memorabile, poetico e quasi sacrale “Sarti, Burgnich, Facchetti…”. Altri tempi, altro calcio, altra Inter. Ma quella rimasta nella testa e nei sentimenti di Nicola è forse, in fondo, sempre la stessa. Quella di oggi con cui sta cercando di riallacciare i rapporti e quella dei record di cui è stato simbolo e pilastro. In quasi dieci anni, dall’estate del 1988 al gennaio del 1998, Berti è sceso in campo 312 volte con la maglia nerazzurra, ha segnato 41 gol, vinto uno scudetto, due coppe Uefa e una Supercoppa Italiana. Ha scritto pagine indelebili e tracciato linee inconfondibili come quella fuga a Monaco da un’area all’altra del campo in una gloriosa serata europea datata 1988: un gol tanto spettacolare, terminato con un esausto e incredulo tuffo nella neve, in ginocchio sugli striscioni stesi sotto la sua curva, quanto inutile per una qualificazione sfuggita nella gara di ritorno a un’Inter che si fece rimontare dal Bayern, mostrando già quei tratti di pazzia che solo molti anni dopo sarebbero stati celebrati e addirittura scalfiti in un inno. Nicola Berti è stato anche questo: “Ero un giocatore differente da tutti gli altri, un cavallo pazzo. Avevo falcate, percussioni e inserimenti come pochi e anche se tecnicamente non ero fortissimo ogni tanto mi venivano queste gran giocate, che pure non erano all’altezza della mia tecnica, perché comunque ci mettevo sempre grinta e generosità”.
Sarà per questo che a distanza di tempo l’ex numero 8 resta uno dei giocatori più amati nonostante un esilio volontario al termine della carriera, un’uscita dalle scene quasi in sordina, come a nonvolersi concedere l’inchino e gli applausi della platea una volta calato il sipario: “Quando ho smesso di giocare, nel 2010, sono sparito per mia scelta. Ho vissuto 5 anni ai Caraibi perché avevo bisogno do staccare da tutto. Anche se nel 2010 le partite le ho seguite tutte: me lo sentivo che era l’anno giusto. A frequentare lo stadio ho ripreso da poco e mi fanno un gran piacere i sorrisi della gente e i cori dei tifosi: vuol dire che per tanti anni qui ho lavorato bene”.
Il lavoro lo ha svolto nell’Inter dei record di Trapattoni, una squadra rimasta nella storia: “Certo quel record è nostro e non ce lo leverà mai nessuno anche perché appartiene all’era del campionato da due punti. Ma al di là dei numeri conta quella grande cavalcata che riuscimmo a fare fino al Tricolore contro avversari fortissimi come il Milan degli olandesi, il Napoli di Maradona e la Samp di Vialli e Mancini”. Appunto, altri tempi e altro calcio: “Penso che in quegli anni, e in particolare dall’86 fino al 2000, il nostro sia stato senza dubbio il campionato più bello e forte del mondo: i migliori calciatori venivano a giocare in Serie A e avevamo anche gli allenatori più preparati”. E quell’Inter, la sua Inter, ha raccolto meno di quanto avrebbe potuto e meritato: “A me manca sicuramente lo scudetto del ’91, quello poi vinto dalla Samp. Quell’ano abbiamo perso qualche punto di troppo e soprattutto lo scontro decisivo a San Siro. Una partita strana che meritavamo di vincere 4-0 e che invece abbiamo finito per perdere 2-1. Una cosa inspiegabile ma questo è il bello del calcio e soprattutto quelle sono sconfitte su cui non puoi recriminare perché hai dato tutto e non potevi fare di più”. Nessun rimpianto appunto; e nemmeno nessun rimorso.
Altro scudetto mancante è quello del 1998, proprio l’anno in cui Berti, a gennaio, disse addio all’Inter per trasferirsi a Londra: “La Juve era fortissima e forse aveva qualcosa in più rispetto a noi ma gli errori arbitrali furono clamorosi e quello fu un campionato che ci fu rubato. Io avevo deciso di andarmene perché non giocavo e non facevo più parte dei programmi di Simoni. Avrei potuto decidere di restare altri due anni, come voleva Moratti, nel ruolo più che altro di uomo-spogliatoio ma io volevo giocare visto che avevo 31 anni anche se venivo da tre infortuni di fila abbastanza gravi: è stata una scelta fatta per me stesso, per dimostrare che ero ancora un calciatore valido come poi ho dimostrato al Tottenham diventando, anche lì, un idolo per i tifosi”.
Tra tutti i suoi trionfi in maglia nerazzurra, in Italia e in Europa, quello di cui è più orgoglioso è l’aver contributo alla salvezza del 1994. Quasi un paradosso per uno che è stato decisivo per la conquista dello scudetto dei record, ha alzato coppe e giocato in una squadra che per anni è stata al vertice del campionato. Non secondo il diretto interessato che offre una di quelle spiegazioni per cui i tifosi possono letteralmente impazzire: “L’Inter non è mai stata in Serie B. Quello è stato un anno difficilissimo e io stavo recuperando dal mio primo grave infortunio. Non sono stato io ma il mister Marini a dire: 'Se non rientrava Berti finivamo per retrocedere'. E alla fine della stagione fui anche convocato in Nazionale al mondiale americano: l’unico interista a tenere alta la bandiera in mezzo a 13-14 milanisti!”.
La sua rivalità con i milanisti è storia nota. Ma non erano solo i cugini rossoneri a detestarlo: “Quando giocavamo in trasferta io ero sempre il giocatore più fischiato e ne ero fiero perché questo era un riconoscimento che mi faceva sentire importante. Non si fischia uno inutile ma uno che dà fastidio, un rompiscatole e io ero orgoglioso di essere così. Adoravo sentire un clima ostile intorno e i fischi dei tifosi avversari, anzi io cercavo proprio la sfida con loro perché questo mi gasava, mi serviva per caricarmi e darmi più energia”. Quel tipo di giocatore che si esalta quando è circondato dall’inferno, esattamente come, in tempi più recenti, Marco Materazzi, l’unico interista in cui Berti si è rispecchiato anche se solo in parte: “Calcisticamente non ho più visto giocatori simili a me ma per temperamento e grinta uno che mi assomigliava è stato proprio Matrix”.
Roba da leader, da giocatori e uomini veri che hanno saputo affrontare anche il “fuoco amico”: sì perché giocare a San Siro, la Scala del calcio, espone anche a questo rischio, soprattutto quando l’Inter gioca male e i risultati non arrivano. Alle stecche degli interpreti corrispondono bordate che piovono senza pietà dagli spalti. E di essere fischiato dai propri tifosi è successo anche a Berti: “Giocare in questo stadio mette molta pressione ma la pressione in fondo è proprio il bello del calcio altrimenti che sport sarebbe? A me è capitato di essere fischiato ed è un’esperienza orribile ma va bene così perché non avrei voluto essere perfetto. Avevo alti e bassi, settimane in cui non ero in forma e mi beccavo le critiche perché il pubblico sapeva il mio valore ed ero sempre io il primo ad essere fischiato quando le cose non andavano bene. Ricordo soprattutto il 1995, anno difficile in cui per qualche partita, giocata male e persa, ero capitano. In quel periodo dopo una sconfittacontro la Samp di Eriksson dovetti lasciare lo stadio sul loro pullman perché la gente aspettava me, e non i miei compagni, per contestarmi. Mi fischiavano anche durante le partite e queste sono cose che fanno malissimo. Anche le mie caratteristiche mi esponevano in modo particolare alle critiche:me ne stavo lì in mezzo al campo, alto, non geniale tecnicamente e quindi quando non stavo bene e facevo delle cavolate lo si notava subito!”.
Un leader in campo e anche fuori che però non ha mai pensato di fare l’allenatore una volta conclusa la carriera di calciatore: “Forse ho sbagliato ed è stato un errore ma non rimpiango niente. È andata così. Avrei anche potuto giocare un paio d’anni in più ma una volta smesso avevo solo voglia di staccare e stare tranquillo. Così mi sono trasferito a vivere ai Caraibi per cinque anni. Dopo un po’ di tempo però le cose ti mancano e sono tornato indietro anche per la mia famiglia. Ora collaboro un po’ con l’Inter, sono rientrato nei ranghi facendo piccole cose ma si comincia sempre così poi si vedrà”.
Eppure, pochi mesi fa fece una battuta, durante una trasmissione televisiva, proponendosi in coppia con un altro idolo degli interisti, Zenga, per sostituire Mazzarri: “La vedrei bene anche in futuro questa coppia. Walter ha il patentino e ci spera ancora di poter allenare l’Inter un giorno: io credo che lo meriterebbe anche se ora c’è Mancini che ha un progetto chiaro quindi per i prossimi due o tre anni non c’è spazio per pensare ad altri allenatori”. Mazzarri, dunque, era l’uomo sbagliato al posto sbagliato? “Non lo sopportava più nessuno, i tifosi non andavano allo stadio, si era creato un clima negativo e c’era una sorta di antipatia verso di lui. Non andava più bene per l’Inter, non c’era più feeling e non andava d’accordo nemmeno con lo spogliatoio per cui la società ha fatto bene a cambiare e a scegliere Mancini”.
Mancini, sempre più l’hombre del partido, colui che ha ridato speranza e vitalità a un ambiente depresso che non sapeva più in quale direzione andare: “Ha riportato entusiasmo e soprattutto ha un progetto preciso. Sarà lui l’allenatore per i prossimi anni e avrà carta bianca sul mercato. E’ l’uomo giusto, conosce l’ambiente e ultimamente si è anche tranquillizzato adottando uno stile molto british”.
L’Inter attuale vive di (pochi) alti e (molti) bassi, sta portando a termine una stagione negativa e deludente ma sta anche iniziando a mostrare i primi frutti della filosofia manciniana: “La squadra a volte ha giocato bene e in più sono arrivati giocatori importanti come Shaqiri. Hernanes, il primo acquisto importante dell’era Thohir, finalmente sta mostrando il suo valore così come Vidic che secondo me sarà un validissimo titolare per la prossima stagione al contrario di Ranocchia che rappresenta ancora un punto interrogativo. Vidic veniva da 10 anni di Manchester United, era spremuto e aveva bisogno di rinfrescare mente e muscoli. Adesso ha trovato la forma migliore e sta facendo molto bene”.
Il Mancini-pensiero prevede, o semplicemente sogna, per il 2015/2016, un’Inter capace di puntare allo scudetto. Pura utopia secondo molti ma non secondo Berti che rilancia: “Nel giro di due anni bisogna puntare alla vittoria del campionato ma probabilmente si può puntare al titolo già dalla prossima stagione. Con una Juve che ha vinto 4 scudetti consecutivi penso che ci si possa provare”.
E se qualcuno pensa che per poter inseguire il Tricolore serva una rivoluzione in casa Inter, Berti è molto più ottimista: “Bastano un paio di buoni rinforzi e questa squadra è da scudetto: servono un buon difensore e un centrocampista che possa giocare davanti alla difesa. Medel è bravo ma occorre qualcuno di maggior spessore. Se riusciamo a mettere a posto il pacchetto di centrocampo, con la qualità di Hernanes, Guarin e Kovacic ci sarà da divertirsi e potremo anche essere spettacolari. L’attacco deve essere confermato perché Icardi e Palacio sono una garanzia. Credo anche che i giocatori di maggio prestigio non vadano venduti anche se bisogna comprendere le esigenze di fare cassa e probabilmente uno tra i big verrà ceduto”.
Tra i big, costantemente con la valigia in mano ad ogni sessione di mercato, ci sono sicuramente Guarin e Icardi, pedine fondamentali: “Il colombiano è migliorato molto in questa stagione ed è anche più attaccato alla maglia avendo giocato oltretutto alcune partite da capitano. In passato era più anarchico in campo, ora mi sembra più ordinato e disposto a giocare per la squadra. L’argentino è un tipo particolare: ci sono rimasto male quando l’ho visto litigare con i tifosi dopo la sconfitta col Sassuolo. È stata una cosa che non ho capito ma credo sia dovuto al fatto che Mauro si senta un leader, un trascinatore e alla fine queste cose finiscono addirittura per rafforzare il legame tra il giocatore e la curva. Si impegna molto, magari tocca pochissimi palloni durante una partita ma si impegna molto e soprattutto la butta dentro”.
E se Berti avesse la bacchetta magica e potesse scegliere tre giocatori per rinforzare questa squadra? “Io sarei felicissimo se ne arrivassero due: Hummels, il difensore tedesco del Borussia, e Yaya Tourè che anche se ha 31 anni credo in poco tempo potrebbe ritrovare forze e motivazioni nuove soprattutto ritrovando un allenatore come un Mancini che per lui è un vero padre. Sarei già contento così ma se poi arrivasse anche Dybala non sarebbe male”.
Nonostante le stagioni negative alle spalle e un’altra in corso che sta per terminare senza troppa gloria, gli interisti possono avere fiducia nel futuro: “Il progetto è buono, anzi direi che lo si possa considerare quasi del tutto soddisfacente. Gli ultimi due anni sono stati difficili come era normale che fosse visto il cambio di società. Thohir all’inizio doveva capire bene come e dove investire e c’erano debiti da sistemare. Quest’anno Mancini è arrivato a stagione in corso e ora che avrà completa libertà di decidere la campagna acquisti dovrà essere bravo a costruire la squadra che vuole. Quest’anno a volte sono mancate grinta e passione ma è anche normale visto che ci sono molti più stranieri rispetto ai miei tempi che magari faticano di più a capire i tifosi, l’ambiente e l’importanza di questa maglia. Io credo comunque che tutti meritino ancora una possibilità perché non era facile rimettersi in carreggiata dopo la difficile esperienza con Mazzarri. Non possiamo fare altro che seguire il progetto di Thohir e farlo con entusiasmo. Certo una figura come Moratti manca ma le sue veci ora le sta facendo Zanetti che è sempre allo stadio e vicino alla squadra: è un po’ più introverso ma ha un enorme carisma”. Avanti sulla strada tracciata, dunque. Senza rimpianti e con tanto orgoglio sia per il passato sia, soprattutto, per il futuro.
Giulia Bassi
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