"Non mi rimane che tacere": così Umberto Eco decise di terminare la revisione e correzione de "Il nome della rosa". Il concetto è il medesimo scelto dalla Curva Nord per manifestare rumorosamente la propria protesta, per replicare all'abisso nel quale l'Inter è sprofondata. Il silenzio, spesso, provoca un frastuono niente affatto paradossale e nel caso degli ultras assume la forma della composta dignità unita alla frustrazione di uno spettacolo imbarazzante. Quello offerto, nelle ultime settimane, da giocatori e società. E se il silenzio scelto dagli inquilini del secondo anello verde risulta efficace, comprensibile, condivisibile, quello invece adottato sistematicamente da chi l'Inter la dovrebbe rappresentare risuona ora, e più che mai, stonato, desolante, sconcertante. Per uno strano cortocircuito, per un sarcastico gioco degli equivoci, rischiano poi di risultare fuori luogo le parole di chi, invece, la faccia decide di mettercela. Per volontà sua o perché forzato da chissà chi.
"Farò di tutto per difendere l'Inter nelle sedi opportune come ho sempre cercato di fare in campo in questi anni": con queste parole Javier Zanetti il 12 maggio 2014 salutava un San Siro completamente e devotamente ai piedi dell'uomo e del giocatore che più di chiunque altro aveva indossato non solo la maglia ma anche la fascia con onore e lealtà oltre che con lo spirito e la mentalità dei vincenti che le annate precedenti avevano consentito. Una poltrona, e anche piuttosto comoda, era già pronta per lui. Quella del vice presidente, si sarebbe poi scoperto. E a tempo indeterminato. Solo che ora, in tempi in cui tutti si chiedono chi è che comanda, chi è che alza la voce, chi è che spiega a chi la indossa cosa rappresenti davvero quella maglietta con le strisce nere e blu, chi è che si presenta davanti alle telecamere, chi è che prende decisioni, chi è che consiglia i cinesi o gli indonesiani distanti centinaia e centinaia di chilometri, chi è che rassicura i tifosi e soprattutto chi è che difende l'Inter, ecco in tutti questi momenti, alzi la mano chi ricorda di aver udito la voce dell'ex capitano. Le accuse, se sono tali, è perché la grandezza della figura, dell'uomo, e dell'esperto di calcio, è riconosciuta e, di conseguenza, l'aspettativa cresce in maniera proporzionale.
Rappresentare l'Inter significa, in momenti come questi, assumersi delle responsabilità più e meglio di quanto fatto a Crotone da un direttore sportivo che aveva persino il contratto in scadenza (e non a tempo indeterminato): quel Piero Ausilio poi smentito dall'ultimo arrivato, il pur stimatissimo e apprezzabile Gagliardini che poche ore dopo la sconfitta sul campo della terz'ultima in classifica si è permesso di non essere d'accordo con il suo dirigente che aveva definito "arrogante, presuntuoso e superficiale" l'atteggiamento di una squadra di milionari meritatamente battuti da chi lotta, e con enorme dignità e coraggio, per rimanere in Serie A. Ve lo immaginate un 20enne che dalla Primavera dell'Atalanta arriva a Vinovo e controbatte alle dichiarazioni di Marotta? No. E non perché ci sia qualcosa di sbagliato nel giocatore (che legittimamente dice ciò che pensa) ma perché l'ambiente, e le persone, che ti circondano ti spingono a comportarti in un modo o nell'altro. Questione di ruoli. Di carisma. Di silenzi.
E così succede che in uno dei momento storici più complicati dal dopoguerra a oggi, dopo l'ennesima sconfitta e l'ennesima contestazione l'Inter, messa ko dal Sassuolo e da Iemmello, si ritrovi ad essere rappresentata, con tutto il rispetto, da Eder e Handanovic. Lontana la Cina, lontana l'Indonesia, lontano Ausilio (che nel frattempo ha rinnovato ma in ufficio deve prepapare qualche scatolone per far posto all'arrivo di Sabatini in una coabitazione dirigenziale ancora tutta da chiarire), lontano uno Steven Zhang che pure per un certo periodo era riuscito ad essere fisicamente e carismaticamente "l'uomo di Suning a Milano". Lontani tutti, tocca all'attaccante e al portiere presentarsi ai giornalisti in uno sgradevole tentativo di alzare la voce dove tutti attaccano tutti, dove si dice che non ci si allena bene, che da 5 anni succedono le stesse cose e dove, addirittura, si invita la società a fare chiarezza e dire chi deve restare e chi no. E in sottofondo, il silenzio di chi l'Inter diceva di volerla difendere. Di chi, davvero, avrebbe il carisma, la levatura, l'autorevolezza di presentarsi a parlare nel momento in cui il nero e l'azzurro necessitano come non mai di qualcosa di degno. Almeno tu, "Zanetti, dì qualcosa di interista" verrebbe da pensare, parafrasando un film di Nanni Moretti datato 1998. E invece no. Tutti lontani, tutti in silenzio. Tranne uno. Perché nel momento in cui vengono scritte queste poche righe arriva, fresca fresca, l'agenzia di un Moratti a cui, invece, il tacere non è mai piaciuto e che definisce "ovvio e normale" l'esonero di Pioli e che si ritiene "sconcertato ma fiducioso in Suning". Eccolo, di nuovo, quello strano cortocircuito, quel sarcastico gioco degli equivoci tra chi parla e chi tace, chi è vicino e chi è lontano, chi dovrebbe sbattere i pugni e chi abbassare la testa e pedalare. E, probabilmente, chi dovrebbe andarsene e chi invece resta. "Non mi rimane che tacere".
Giulia Bassi
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