Così capita che, in un primaverile sabato sera qualunque, ti ritrovi per le mani la squadra di calcio che avresti voluto vedere da inizio stagione. Oddio, non stiamo parlando dell’Invincibile Armata voluta e preparata nel sedicesimo secolo dal Re di Spagna Filippo II, questo no. Molto più semplicemente di undici eroi del pallone nostrano che, in un lampo di memoria, si sono ricordati dov’erano, su un campo di calcio, e cosa dovevano fare, possibilmente vincere. Perché chi indossa i colori del cielo e della notte questo deve fare: scendere sul terreno di gioco con la sola idea del successo. Vada come vada. Si può perdere, capita a chiunque, ma sempre e comunque con orgoglio e dignità. Perché se hai la fortuna di indossare la maglia nerazzurra devi anche ricordare che dietro di te hai un popolo. E non lo puoi e non lo devi deludere. Poi, ripeto, ci sta la giornata storta, la partita disgraziata, l’episodio sfavorevole; il calcio è un insieme di fattori, di accadimenti, di attimi. E anche di fortuna o sfortuna. Spesso.
Invece ad Appiano la china che si era presa mi sembrava tra il preoccupante e il molto preoccupante. Dai tre punti conquistati a Cagliari in poi, Genova a parte, avevo assistito a prestazioni sciape, senza un minimo di sale a condire il solito piatto di portata. Errori marchiani, distrazioni oratoriali, balbettii inspiegabili erano parte integrante di un menù ripetitivo, oltretutto mal presentato e peggio ancora servito. Quando non entrava in ballo l’accidia. Perché in un paio di occasioni, nello specifico Parma e Cesena, mi ero ritrovato a osservare impotente la quasi assenza dei miei dal terreno di gioco. Le partite, l’ho scritto poco sopra e ripeto il concetto, sono anche frutto di episodi che con la tattica e la tecnica hanno poco a che vedere; ma per noi tifosi il fattore imprescindibile è che i nostri escano dal campo con la maglietta sudata e la lingua a penzoloni.
In decine di anni di frequentazione del Meazza c’è uno striscione che ricordo sempre con grande piacere, esposto dalla curva dopo l’eliminazione infausta dalla allora Coppa UEFA a opera del Bayern di Monaco, 7 dicembre 1988: “Mancò la fortuna, non l’onore”. E la domenica dopo, derby, vincemmo la stracittadina con un gol fantastico di Aldo Serena, nella più classica delle azioni di contropiede. Roba da manuale del calcio. Altri tempi, altra Inter. Lasciamo perdere gli amarcord, restiamo sull’attualità. Che ci racconta di miseri 41 punti in classifica. Probabilmente meno di quelli che ci saremmo meritati sul campo, spesso siamo stati puniti oltre i nostri demeriti, ma che fotografano una annata storta e per molti versi disgraziata. Non sto ad entrare nei meandri di disquisizioni tecnico-tattiche che a ben poco servono; del senno del poi son piene le fosse, recita un antico detto popolare. E, francamente, sparare su tizio o caio dopo la partita, sul come si è giocato e sul come si sarebbe dovuto giocare, sugli errori presunti o reali, non mi appartiene. Anzi, lo trovo uno sport senza costrutto.
Per dirla tutta. A me, ma credo un po’ a tutti noi tifosi, interessa l’impegno. La corsa. La grinta. La dedizione alla causa. Al di là delle belle parole, delle frasi fatte, delle interviste di rito. Non ci vuole poi molto per conquistarci, se ci pensate bene. Alle volte basta davvero poco per riaccendere il fuoco che cova sotto la cenere, per infiammarci gli animi, per farci tornare a sorridere; basta, ad esempio, andare a Verona e vincere, anzi stravincere, la partita. Proprio alla vigilia del derby. Sì, ci siamo svegliati proprio alla vigilia di una delle più inutili stracittadine degli ultimi anni. Perché sia noi che i cugini, in fondo, cosa abbiamo da chiedere a questo campionato? Il nulla, con molto, moltissimo rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Basti guardare le formazioni che stanno sopra di noi; e che domenica dopo domenica danno vita a un torneo di ciapa no, si dice a Milano, universalmente noto come tresette a perdere. Che volete, tutto sommato mi sta perfino bene aver vinto l’ultima; passeremo una settimana relativamente tranquilla, se qualcuno non se ne esce con altre proposte oltre l’azionariato popolare, strada tra parentesi non percorribile, da sfruttare per preparare degnamente la sfida che serve soltanto a dirimere questioni meramente condominiali, a stabilire una sorta di gerarchia meneghina. Nient’altro.
Spesso quest’anno, troppo spesso per la verità, ho assistito a fucilazioni di massa dell’intera retroguardia. Che, sia chiaro, davvero poco ha fatto per conquistare consensi presso la tifoseria; sbavature, orrori da dilettanti allo sbaraglio, lisci clamorosi… insomma, una vera sagra del genere chi sbaglia di più vince. Però analizzando per bene la questione, al netto dei succitati errori, quante volte il centrocampo non ha coperto o ha coperto male? Sì, di tanto in tanto succede di perdere per lo svarione di un singolo, ma qui ogni partita era una Via Crucis, ogni ripartenza una potenziale occasione per gli avversari. Ecco perché mi è sembrato quanto mai appropriato il titolo di questo editoriale. A volte ritornano.
Ritornano i due centrali, con Vidic che fa Vidic e Ranocchia che lo segue diligentemente, annullando il temuto pericolo Toni. Ritornano Hernanes con pregevoli illuminazioni, con corsa e costrutto, con tutto il repertorio del meglio che sa offrire; e D’Ambrosio, con qualche traversone finalmente ad altezza calcistica e non da gnomi di Biancaneve. Ritornano a colpire i due davanti, insieme, con Icardi che partita dopo partita sta crescendo a dismisura, dimostrando anche ai più critici che sì, Mauro è un grande centravanti, uno di quelli di cui sentiremo parlare in futuro. E con Palacio che sta decisamente guarendo dai problemi che lo hanno attanagliato per tutta la stagione, correndo come un ragazzino alla disperata ricerca di un posto da titolare. Insomma, in generale Verona è stato un bel vedere, perlomeno per circa sessanta minuti. Ma sì, a volte ritornano. Con la speranza che magari restino per le ultime otto giornate.
Autore: Gabriele Borzillo / Twitter: @GBorzillo
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