Se mai il derby di domenica avesse avuto bisogno di una colonna sonora, questa, ancor più dell’esibizione pre-partita di Ghali, sarebbe stato più adatto un brano come ‘Electricity’ degli Orchestra Manouvers in the Dark (quelli di ‘Enola Gay’, tanto per intenderci). Perché, a volerla dirla tutta, quella andata in scena tre giorni fa è stata una stracittadina all’insegna dell’elettricità, prima, durante e soprattutto dopo. Prima, perché l’ambiente Inter sembrava carico di energia negativa dopo l’eliminazione dall’Europa League, i continui strascichi soprattutto mediatici del prolungarsi del caso Mauro Icardi e il contraccolpo del sorpasso operato dal Milan che nemmeno troppe settimane fa sembrava a distanza di netta sicurezza e che invece una serie di risultati positivi, un ritrovato entusiasmo e la prolificità di un Krzysztof Piatek che ha fatto dimenticare in fretta la parentesi Gonzalo Higuain hanno proiettato alla grande sfida nel ruolo di favorita assoluta, se non addirittura di vincente già scritta nelle stelle.

Ma i derby, si sa, sono partite che al di là di ogni retorica amano sfuggire a qualsivoglia tipo di pronostico e di copione già scritto. E allora, ecco che l’Inter scarica sul campo tonnellate di negatività pregresse trasformandole in folgori di energia positiva e accecante, capace di fulminare dopo nemmeno cinque minuti di orologio l’avversario che di ogni favore sembrava godere e che invece ha finito col perdere subito dei punti di riferimento ancor più di quanto non sia successo a gara in corso nell’avere a che fare con Lautaro Martinez. Primo tempo in totale controllo, ripresa iniziata ancora meglio col raddoppio di Stefan de Vrij, poi arrivano le scosse rossonere, in campo con la squadra di Rino Gattuso che prova a ricucire lo strappo ma viene subito ricacciata indietro col colpo dal dischetto del Toro e alla quale nulla serve il fortunoso 3-2 di Mateo Musacchio; e fuori, dove l’elettricità annebbia la mente di Franck Kessié che reagisce come peggio non potrebbe al rimbrotto di Lucas Biglia andando vicino al regolamento di conti a bordo campo.

E dopo? Beh, dopo è facile dirlo. Dopo sono tutti gli interisti ad essere elettrici, e ne hanno ben donde visto il modo perentorio in cui è arrivata la vittoria e il ribaltamento delle prospettive dettate dai presupposti coi quali il mondo nerazzurro arrivava a questa sfida. E allora cantano, e ne hanno ben donde, i tifosi nerazzurri, dopo il triplice fischio; cantano e saltano, e si concedono anche lo sfizio di sbeffeggiare i cugini riproponendo a gran voce il coro da loro dedicato al bomber polacco, assente ingiustificato della sfida. Canta e salta la Curva Nord, e insieme a loro cantano e saltano i giocatori dell’Inter, pienamente coinvolti nell’estasi di un successo che, bontà loro, potrebbe davvero valere la virata definitiva per il finale di stagione dove preservare il piazzamento Champions è diventata ormai una strada obbligata. Cantano e saltano i giocatori e canta e salta su tutti Milan Skriniar, colto mentre gioisce guardando verso i propri tifosi con occhi rapiti dalla magia, quasi fossero quelli di un bambino che per la prima volta va a Disneyland o si appresta a scartare i regali di Natale. Uno sguardo e una felicità, quelli dello slovacco, che la dicono lunga, lunghissima su quanta voglia avesse, lui come tutta la squadra, di fare suo questo derby.

Domenica sera l’ha vinta Luciano Spalletti, che subito dopo però rigira i complimenti a “tutti quelli che sono dentro lo spogliatoio”, e sicuramente non solo con riferimento a Radja Nainggolan che dopo aver assistito al derby al fianco di tutto lo stato maggiore nerazzurro, a fine gara è corso a felicitarsi coi compagni e fare la foto di rito post-vittoria. Non è casuale che Spalletti parli di spogliatoio, quello spogliatoio sul quale negli ultimi tempi si è favoleggiato un po’ troppo, definendolo spaccato se non addirittura luogo di faide tra clan che sfiorerebbero addirittura un processo di orogenesi geografica, nemmeno stessimo parlando della tettonica a placche. Poi però vedi che Matias Vecino e Lautaro Martinez usare la loro garra per non prendere alla collottola i croati ma per mettere alla corda l’avversario; che Skriniar e De Vrij mostrano tutta la loro sensibilità verso il presunto conflitto etnico interno decidendo di maltrattare (sportivamente) un polacco che però indossa colori differenti; vedi Marcelo Brozovic che se deve combattere contro un nemico quello è il dolore fisico che avrà la meglio solo dopo 73 minuti. Insomma, vedi tutto questo e ti viene un po’ da sorridere sotto i baffi, sussurrando, magari dopo un sorso di maraschino caldo: “Va bene…”.

Poi, soprattutto, vedi un giocatore, un giocatore del quale nel corso degli anni tanto, troppo si è detto peste e corna. Un giocatore che non è magari il top player, quello che vorresti nella squadra dei tuoi sogni, ma è uno sul quale, nei momenti che contano, sai di poter sempre fare affidamento perché sai che, quando meno te lo aspetti, sbuca dal nulla e ti pesca la giocata fondamentale, anche la più sporca. Danilo D’Ambrosio non rientrerà nel novero dei giocatori candidati ogni anno alla conquista del Pallone d’oro, e non si è improvvisamente trasformato in quell’incrocio tra Marcelo e Roberto Carlos così come lo ha dipinto Beppe Severgnini, probabilmente ancora per via dell’effetto mirabolante del successo di domenica. Ma D’Ambrosio è D’Ambrosio, quel giocatore che, puoi stare certo, non ti tradisce mai, e sai che all’improvviso può arrivare e toglierti dai guai. Giusto per fare qualche esempio: è D’Ambrosio che nella scorsa stagione ti regala tre punti d’oro risolvendo una rognosa partita col Genoa; è D’Ambrosio che riequilibra la situazione nello spareggio Champions contro la Lazio dando la prima stoccata ad una squadra che sembrava in totale controllo della situazione; è D’Ambrosio che trova la rete del 2-1 che quest’anno ti permette di portare a casa il successo con la Fiorentina.

E se il peso specifico non lo mette coi gol, allora prova a metterlo col corpo: gli era riuscito a Firenze, se non fosse stato per lo sciagurato Rosario Abisso che si inabissa in un arzigogolo e ribalta un contatto petto-braccio assegnando un rigore alquanto assurdo ai gigliati, uno scippo troppo facilmente derubricato nell’ordine del presunto premio al merito (?) e delle quanto mai irritanti ironie del web. Ma Danilo non si tira indietro e non si pone dubbi di fronte quando davanti a lui si prospetta una sorta di déjà-vu: nel pieno recupero del derby, Patrick Cutrone riceve in posizione più che favorevole ed è pronto a calciare in porta, e allora sta a lui frapporsi tra il pallone e Samir Handanovic. Ma memore dell’episodio del Franchi, e per evitare di incappare in un altro equivoco anatomico, pensa bene di mettere le braccia più indietro possibile e di immolare alla causa… quelli che proverbialmente vengono definiti i gioielli di famiglia. La mossa è un po’ masochista ma decisiva: pallone respinto e risultato salvo. E lui che alla fine esulta a terra, come avesse segnato un gol.

E fa più che bene, Danilo, ad esultare: il suo sacrificio, detto in senso lato, equivale davvero ad un gol segnato, se non addirittura di più. E pazienza se è costato un atto di dolore, visto che, in tempi dove il concetto di ‘huevos’ è tornato prepotentemente alla ribalta pur nella sua concezione diciamo triviale, come simbolo sfacciatamente esposto di grinta come inteso da Diego Pablo Simeone o come irridente sfottò all’avversario distrutto sul campo come nella versione di Cristiano Ronaldo, D’Ambrosio riporta il tutto alla concezione più umana e se vogliamo più utilitaristica del termine. Perché per reggere a certi livelli e per portare a casa un risultato che vale come l’oro, i cosiddetti huevos non basta dire di averli, bisogna anche metterli sul tavolo da gioco. In ogni modo possibile. E costi quello che costi.  

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Sezione: Editoriale / Data: Mer 20 marzo 2019 alle 00:00
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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