Se c'è una cosa che era inevitabile, dopo l'ultima stagione, era l'addio a Spalletti. Bravo a piazzare l'Inter dove non poteva non essere, a raccogliere le macerie degli ultimi anni e a e far risentire il profumo delle partite che contano. Spalletti è stato credibile. Di più: è stato l'allenatore migliore che l'Inter di due anni fa e quello dello scorso anno si potessero permettere.

L'Inter, però, è letteralmente un work in progress, è una società, un'azienda, un club che corre veloce e che non può permettersi il lusso di aspettare, rimandare. O semplicemente di viaggiare a velocità ridotta. Spalletti ha dato stabilità là dove regnavano caos e illogicità, ha usato buonsenso e si è calato bene nella parte. Ha parlato sempre dritto al cuore dei tifosi conquistandoli per spavalderia e convinzione nel difendere quei colori che in troppi, in passato, non avevano nemmeno saputo rispettare. E in certi momenti ha avuto persino un qualcosa di epico che mancava da tempo quasi immemore.

L'ultima stagione, però, è stata logorante sotto tutti i punti di vista. E, soprattutto, non ha visto realizzarsi nessun salto di qualità, nessun passo in avanti. L'unico obiettivo raggiunto era quello minimo. Tutti i protagonisti sono arrivati al traguardo stremati e consumati, col fiato corto e rischiando di non farcela. Spalletti per primo. Come gli era, del resto, accaduto a Roma anche se con sostanziali e non banali differenze. Ha creato delle rotture, ha avuto delle mancanze tattiche e caratteriali, non ha saputo riconoscere certi limiti, si è ostinato a proseguire per una strada che più di tanto lontano non poteva portare e, alla fine, nel suo piccolo può persino aver avuto ragione.

Nel suo piccolo, ecco perché era inevitabile l'addio. Con l'attenuante non da poco di una rosa costruita sotto fair play finanziario e con lacune evidenti, ha costruito una squadra capace di viaggiare quasi sempre con la stessa marcia. Un unico modulo che non ha visto varianti nemmeno quando gli interpreti più importanti erano assenti o poco utili alla causa. Un gioco spesso prevedibile e lento che di frequente finiva per sbattere contro la sua stessa fragilità ma anche ansia.

Nelle partite che potevano dare un significato differente alla stagione, l'Inter è mancata principalmente di convinzione e di carattere. Oltre che di alternative. E di coraggio. L'Inter non ha quasi mai osato. Non è diventata una squadra vincente perché non ha saputo essere camaleontica. Un paio di volte si sono viste idee tattiche interessanti ma su quelle strade non si è continuato a correre. A Bologna a inizio stagione, ad esempio, si era visto un Keita 'falso nueve' che riempiva l'area a rotazione con Nainggolan, Perisic e Politano: situazione che crea imprevedibilità e che rimedia alla mancanza di un 9 vero ma quando poi l'Inter si è ritrovata, davvero, senza il 9 questa soluzione non è stata più riproposta.

Anche il Vecino trequartista visto nel derby era stata una mossa azzeccata, quella classica scelta a sorpresa che manda in confusione l'avversario e ti offre una soluzione nuova. E ti fa vincere. Ma anche qui, poi, l'idea non è stata riproposta o ritentata nonostante quello del trequartista, quest'anno, sia stato spesso un ruolo senza padrone per via degli acciacchi del Ninja.

Uscito prematuramente da una Coppa Italia che, con la Juve fuori, poteva essere una bella occasione, Spalletti si limitò a dire che quello non era un obiettivo e che, anzi, erano i giornalisti a creare aspettative e pressione. E che poi tutto questo spingeva i tifosi a fischiare lui e la squadra. Difficile non definire mediocre tutto ciò. Perché se sei all'Inter con le aspettative e la pressione ci devi fare colazione. E pure il pranzo e la cena.

Per questo, quella di Antonio Conte, ora, è la scelta migliore possibile. Perché ha fame di rivincite, di dimostrare quanto vale, di imporre lavoro, sudore, fatica ad ogni singolo giorno. L'Inter come società ha cambiato radicalmente pelle negli ultimi due anni con la presa di potere totale di Suning e l'uscita di sena di Thohir ma soprattutto con l'arrivo di un dirigente come Marotta, professionista che non guarda in faccia nessuno e niente se non ciò che ritiene il meglio per la sua azienda. Sarà poco romantico parlare di professionisti agguerriti e aziende ma il calcio di oggi è così.

Il calcio di un Moratti e di una gestione come la sua, ad esempio, non esiste più. Per questo gli interrogativi e lo scetticismo di alcuni 'puristi dell'interismo' sono insensati e fuori dal tempo. Marotta e Conte avranno pure sul passaporto il timbro della juventinità, ma nei rispettivi ruoli sono esattamente ciò che all'Inter è mancato negli ultimi decenni e che, di volta in volta, era stato ciclicamente (ma anche troppo raramente) colmato dal portafogli sempre aperto di Moratti, dal carisma e dall'indole vincente di Mourinho o dal vento in poppa di cui ha goduto Mancini.

Ma l'Inter è storicamente un ambiente che necessita del pugno duro, della fermezza e di una linea di condotta quasi militaresca. Tutti in tensione, sempre. E' questo l'unico modo, unito a una società affidabile e riconosciuta, per ricreare una mentalità vincente, per riportare la sensazione di non poter e dover sbagliare non perché le sconfitte non siano contemplate (e nemmeno sempre "l'unica cosa che conta") ma perché a non poter essere contemplati sono certi modi. E certi atteggiamenti. Che di professionale non hanno nulla e che con Conte praticamente nessuno osa nemmeno immaginare.

Conte è uomo di ferro, ha saputo vincere e portare entusiasmo dove c'erano depressione e persino lacune tecniche che al confronto l'attuale centrocampo dell'Inter potrebbe persino non sfigurare. Avrà bisogno di un mercato di cui al momento tanto si parla (e ancor di più si continuerà a fare in estate) ma che andrà giudicato solo al momento della sua chiusura. Conte è uno che ama le sfide, è uno che da una brace sa far divampare la fiamma. E' uno che se può andare a dare fastidio alla squadra di cui è stato simbolo, capitano e allenatore ma con cui non si è lasciato tra i petali di rosa, sarà il primo a festeggiare.

E se l'Inter la vuole smettere di ritrovarsi a 20 punti dalla Juve quando ancora deve arrivare Natale, Conte rappresenta proprio la scelta che più può permetterti di provarci davvero. Vincere sarà un discorso nuovo, un obiettivo dichiarato e rispetto a cui sarà impossibile fare barricate. Soprattutto, sarà la sfida di colui che i latini avrebbero definito "homo novus" (uno che si ritrovava a ricoprire una carica pubblica senza che in passato nessuno della sua famiglia lo avesse mai fatto). Conte è un "uomo nuovo" rispetto alla tradizione e alla storia dell'Inter. E ora riscrivere tutto spetta proprio a lui.

Sezione: Editoriale / Data: Dom 09 giugno 2019 alle 00:00
Autore: Giulia Bassi / Twitter: @giulay85
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