In Cina devono conoscerlo molto bene, e prestare una certa attenzione, al concetto di consenso popolare. Quello che riguarda l'Inter si basa principalmente su una fiducia incondizionata, sull'amore a prescindere dei suoi tifosi, più che sulla concretezza e l'incontestabilità dei risultati e delle prestazioni. Un po' come in politica quando da generazioni esiste l'abitudine di votare quel partito e lo si continua a fare prescindendo dalle promesse e dalle azioni di governo. A dire il vero in questo caso molte cose stanno cambiando negli ultimi tempi ma questi sono altri argomenti e altri settori. Troppo importanti e troppo complicati. O troppo poco, a seconda. Tanto alla fine "sono tutti uguali". Nel calcio, però, no. Esiste un consenso che ogni squadra trova tra i propri adepti, sempre e comunque. E se il passare degli anni, delle delusioni, delle crisi e degli scandali può portare una penna, prima o poi, nella segretezza di una cabina elettorale, a finire per barrare il simbolo opposto a quello storicamente prescelto, nel calcio un "tradimento", un passaggio simile, anche solo per vedere che "tanto non cambia nulla", non può essere nemmeno lontanamente pensato, ipotizzato, azzardato. Men che meno messo per iscritto.

L'Inter, in questo, è in prima linea: poco o nulla importano le annate disastrose, ai limiti della credibilità e della sostenibilità. La fedeltà prima di tutto. E i tifosi nerazzurri lo dimostrano da anni con una vicinanza e con presenze ogni volta oltre il precedente record ai limiti del commovente. Questo è il calcio, questa è la passione, la fede. Quella che ha spinto, lo scorso anno, una media di 57mila sostenitori a riempire San Siro ad ogni gara casalinga facendo dell'Inter la prima squadra italiana per numero di spettatori e la nona in Europa. Nonostante un'annata rivelatasi ottima soltanto al minuto 81 dell'ultima gara stagionale. E quest’anno il trend è il medesimo con un numero di abbonati che non si vedeva dai tempi del Triplete e altri numeri già sorprendenti in vista delle prossime partite. Partendo da quella che segnerà il ritorno al tavolo della gran nobiltà con quell'esordio in Champions contro il Tottenham che, come minimo, avrà una platea di 60mila spettatori. Tanti sono i biglietti già venduti. Poco meno quelli staccati in vista della ripartenza del campionato contro il Parma.

E non si tratta di semplici numeri, di dettagli, di incassi. Significa fare i conti con sentimenti che non si possono tradire, con aspettative rispetto alle quali non ci si deve rivelare estranei. Per rivelarsi poi all’altezza di cotanta ambizione, di tutta questa spinta emotiva. San Siro c’è, come sempre. Basta solo non disperdere fiducia, tradizioni, passioni. E a San Siro c’è stato, spesso e nonostante tutto, anche Mauro Icardi. Capitano dalle spalle larghe come dimostrato da tante vicende legate al campo ma anche ad altro e come dimostrato da un pomeriggio di ottobre 2016 quando una parte dello stadio, del suo stadio, lo fischiò, a torto o a ragione, come il peggiore degli avversari. E lui seppe andare avanti. Con i gol, i sorrisi e le esultanze a braccia aperte anche sotto quel settore che probabilmente non lo amerà mai fino in fondo. Lo scorso anno l’argentino ha condiviso con Ciro Immobile lo scettro di capocannoniere segnando ed esultando la maggior parte delle volte proprio a Milano. Proprio in quello stadio che una volta si intestardì in una sanguinosa guerra fratricida (con la Curva che fischiava e gli altri settori che lo applaudivano dopo un rigore sbagliato contro il Cagliari in seguito alla lite post-Sassuolo con gli ultras) ma che poi ha sempre, e da sempre, risposto presente alle chiamate in battaglia.

San Siro, Icardi lo ha come vista privilegiata dal terrazzo di casa sua. Si sveglia e si addormenta guardandolo, il tempio del calcio. La prima volta che ci segnò con la maglia nerazzurra addosso, e fu contro la Juve, disse di essere rimasto sconvolto dal boato dei tifosi. Chissà se lo avrebbe mai immaginato di provocarlo oltre un centinaio di altre volte, quel boato. E chissà quante volte si sarà addormentato sognando di provocarlo in notti davvero speciali. Anche per questo quella che sta per ripartire dovrà essere la stagione della sua definitiva maturità. Al centro dell’Inter, al centro di un progetto di cui è simbolo e di cui lo è stato nel bene ma soprattutto nel male. Perché, nessuno può negarlo, la faccia ce l’ha messa sempre. E le lacrime pure. Le ultime, ed erano di gioia, risalgono all'Olimpico quando il colpo di testa di Vecino gli valse il primo vero traguardo raggiunto con quella maglia. Troppo poco, comunque, una qualificazione in Champions se ti chiami Inter. Ma anche se ti chiami Icardi. Non pervenuto alla prima di campionato contro quel Sassuolo che non gli porta troppa fortuna, spuntato contro il Torino in una gara gettata alle ortiche dalla mentalità dei suoi compagni e da un suo tiro sbilenco nel finale. A Bologna ha assistito dalla tribuna al 3-0 che ha placato, almeno in parte, le prime e inevitabili critiche. Ma al centro di quell'attacco che in sua assenza ha visto alternarsi Keita, Politano, Perisic e Nainggolan è destinato a rimanerci lui: lo dice la logica e lo dicono i numeri.

Spalletti gli sta chiedendo evidentemente un lavoro diverso e nel primo tempo contro il Torino lo si è visto: Icardi che esce dall’area, Icardi che si allarga, Icardi che gioca di sponda, Icardi che fa assist. Ma anche Icardi che non calcia in porta una volta. Servirà il giusto equilibrio tra la spietatezza da uomo d’area che lo ha sempre contraddistinto e quello spirito di sacrificio che un attaccante moderno (alla Dzeko) non può non avere e che il tecnico gli chiede (e che in molti gli rimproverano di non avere). Ma il riferimento, lì davanti, quando la palla brucia e lo specchio della porta si rimpicciolisce, resta lui con la freddezza che lo ha portato a segnare in Serie A più di cento gol. A 25 anni. Perché nessuno attacca lo spazio così, nessuno è così puntuale, nessuno ha il suo fiuto in quello spazio di campo denominato area di rigore. Anche per questo dovrà essere, questo, l’anno della maturità. Oltre che dell’esordio in Champions a pochi giorni dal ritorno nella Nazionale argentina dove troppo spesso, ingiustamente e non per limiti suoi, ha trovato la porta bloccata a doppia mandata. Ora le occasioni ci sono e sono in arrivo. Con la spinta di un popolo che riempie lo stadio indossando la sua stessa maglia e sogna di provocare lo stesso boato nelle notti che contano. Mentre ci si addormenta guardando ancora San Siro.

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Sezione: Editoriale / Data: Dom 09 settembre 2018 alle 00:00
Autore: Giulia Bassi / Twitter: @giulay85
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