Quella che sta andando a chiudersi, è stata un’estate nerazzurra densa: di colpi di scena, di orgoglio evidente, di poche parole, di saluti struggenti, di nuovi abbracci. Tutto è cominciato con l’improvviso addio di Leonardo, giovane tecnico che nei cinque mesi in cui è restato seduto sulla panchina della Beneamata ha comunque garantito una media-punti pienamente da scudetto e la vittoria di una coppa Italia, che ancora oggi non è completamente chiaro se sia principalmente stato voluto dal brasiliano o dalla società. E’ stata poi la volta della doverosa difesa a spada tratta da parte del compatto popolo interista – accorso nella fresca e rilassante Pinzolo, come d’abitudine, in massa – dell’immagine solennemente integra di Giacinto Facchetti, tentata d’infangare da una schiera di giornalisti intellettualmente disonesti che speravano ardentemente di trasformare le vittime in carnefici e ribaltare in tal maniera, agli occhi dell’opinione pubblica, un’insopportabile realtà mai digerita.
Le pur rare e quasi noncuranti risposte di Massimo Moratti alle farneticanti richieste dirigenziali della compagine juventina (retrocessa in Serie B dalla giustizia sportiva al termine del torneo 2005/’06, giova ricordarlo, perché ritenuta colpevole primaria dell’ignobile sistema che non permetteva battaglie ad armi pari chiamato Calciopoli) sono state invece l’ovvia conseguenza del vespaio mediatico sollevato dal club reduce da due settimi posti consecutivi che, parafrasando l’autore Ennio Flaiano, pare ormai essere in grado di “fare progetti unicamente per il passato”. Questo, ha rappresentato altresì il bruciante agosto del commiato alla maglia dei campioni del mondo, oltre che dell’impavido e decoratissimo combattente Marco Materazzi, di uno degli attaccanti più forti spuntati sul palcoscenico internazionale del terzo millennio: quel Samuel Eto’o che, grazie agli encomiabili quanto fondamentali sacrifici tattici nella stagione d’esordio e alla caterva di reti segnate nella seconda, in appena un biennio ha contribuito a regalare un’enormità di momenti di giubilo al fiero ed esigente universo “bauscia”.
Infine, è stata anche l’estate che, carta d’identità alla mano, ha visto approdare ad Appiano Gentile diversi talenti dal futuro potenzialmente lungo e roseo (Andrea Poli, Ricardo Alvarez e Mauro Zarate in particolare) ai quali il neo mister Gian Piero Gasperini, al di là di modificare il proprio credo in favore di un 4-3-1-2 maggiormente consono alle caratteristiche dei giocatori a disposizione, dovrà esser bravo a ritagliare l’apposito spazio nell’arco di un’annata che si preannuncia intensa ed estenuante. Il rasserenante periodo simboleggiato da gelati, tuffi e tintarella che si concluderà ufficialmente il prossimo 20 settembre, complice la pubblicazione del libro di Pierluigi Arcidiacono “Armando Picchi – Un nome già scritto lassù”, ha però avuto pure il pregio di rammentare a tutti la figura imprescindibile e condottiera del capitano della Grande Inter, scomparso prematuramente quarant’anni fa a causa di un vigliacco male che lo bastonò alla schiena: Picchi, assieme a Luis Suarez l’indiscutibile uomo-guida dello straordinario gruppo presieduto dal magnanimo signore rinascimentale Angelo Moratti ed allenato dall’istrionico innovatore argentino Helenio Herrera.
Un carismatico livornese di ferro classe 1935, cresciuto nelle fila della formazione della sua città natale prima di trasferirsi nel 1959 alla Spal di Paolo Mazza, giunto a Milano nel 1960 in contemporanea dell’autoritario Mago di Buenos Aires che presto, dopo averlo inizialmente impiegato come terzino, ne avrebbe fatto un libero egregio: esile di torace ma svelto di gambe, indole schietta e grintosa, perno morale e sagace leader unanimemente eletto tale dai compagni che in lui vedevano un autentico allenatore in campo puntualmente capace di consigliare e gestire ciascuno di loro in qualunque frangente della gara (tanto che, a volte, le variazioni di gioco da lui decise sul manto erboso venivano comunicate ad un apparentemente infastidito Herrera, ma da quest’ultimo immediatamente ratificate, solo in seguito). Atleta stimatissimo anche dai rivali, ai quali il vigoroso carattere guerriero di Picchi incuteva assoluta soggezione: uno scaltro comandante sotto le cui direttive la Grande Inter visse tutte le sue sette stagioni di vertice, dal probabile scudetto della primavera 1961 – evaporato, a pro della Juventus, in circostanze quantomeno dubbie – sino al canicolare pomeriggio mantovano del 1967 – costato, nei fatali novanta minuti conclusivi, un altro pressoché certo tricolore – che sancì l’epilogo della sontuosa carriera meneghina del sapiente capociurma toscano, destinato al Varese, e con esso di una delle più maestose squadre di sempre. In mezzo, tre scudetti, due coppe Campioni, due coppe Intercontinentali, molte partite di altissimo livello o addirittura leggendarie, alcune epiche rimonte, 257 presenze, due gol ed un profondo mare (simile a quello della sua Livorno, che nel 1990 gli avrebbe a ragione intitolato lo stadio) di acume e senso tattico: doti che, unite al fenomenale tempismo mostrato sul rettangolo verde e alla naturale autorevolezza riconosciutagli da compagni ed avversari, lo hanno meritatamente innalzato a capitano per eccellenza della storia del Biscione.
Una storia che quest’estate ha giustamente celebrato l’ex numero sei dal petto in fuori e dalla faccia severa, collocatosi tra il parziale cambio di volto della Beneamata e la polemica aria fritta ciclicamente riproposta da Andrea Agnelli per tentar d’oscurare il rischio tangibile di passare agli annali come l’unico presidente bianconero a non aver vinto neppure il trofeo riservato ai trionfatori del campionato cadetto, alloro definito con l’ingombrante appellativo “Ali della Vittoria”. Le stesse possedute dall’angelo della difesa nerazzurra Armando Picchi, un nome già scritto lassù.
Pierluigi Avanzi
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