Dal palco della Triennale di Milano, l’ex presidente dell’Inter Massimo Moratti si lascia andare ai ricordi legati al Triplete del 2010 nel corso di un dibattito a lui dedicato dal titolo ‘Tutti gli uomini del Presidente’:
Dieci anni fa di questi tempi iniziava il percorso dell’Inter verso il Triplete, oggi quanto e come pensa a quella stagione?
“Mentre lo fai hai un’adrenalina che ti condiziona sul come pensare il futuro e ti rendi conto di aver fatto qualcosa di eccezionale e aver fatto contenta un sacco di gente”.
Con quale stato d’animo pensa a quel mese di maggio del 2010?
“Mi ringrazio anche io (ride, ndr), ho delle presenze in ufficio che me lo fanno ricordare. E’ stato un momento di grande felicità e certamente è stata una soddisfazione. E’ più col tempo che ne vedo una soddisfazione. Mi viene in mente di pensare a tutte le persone con le quali lavoravo, Mourinho, i giocatori”.
Avete una chat con quel gruppo?
“I giocatori sì, hanno una chat, è una cosa molto bella. Si tengono ancora in contatto, è bella questa confidenza. Io non sono in questa chat per incapacità, però sento ogni tanto qualche giocatore, mi vengono a trovare, sono molto affettuosi. E’ rimasto molto affetto, nessun sentimento di rivalsa ma solo affetto. È una cosa simpatica”.
Per la premiazione di Montecarlo dell’agosto successivo all’epoca tutti ringraziarono Moratti, come se lei fosse un papà:
“Fu un anno molto buono, non c’era stato un buon impatto con l’allenatore inizialmente, poi arrivò Leonardo sono arrivati secondi e hanno vinto la Coppa Italia. Parecchi di loro, come Eto’o, m chiamano ancora papà. Poi ricordo Kalilou Fadiga, che restò un giorno perché poi dovette fermarsi per un problema al cuore, e fu molto gentile. Poi arrivò Materazzi e anche lui mi chiamava così e allora capì che si sentivano parte di una famiglia e avevano fatto tutto per dare riscontro ad una posizione anche sentimentale. Certe volte alcune realtà hanno maggiori successi ma sono più fredde, l’Inter era all’opposto”.
Lei lo ha percepito l’affetto di noi tifosi che tuttora la consideriamo ‘il presidente’?
“Sì. Non so se è molto modesto, ma sì. È una bella cosa, molto sinceramente, allora come adesso, sono circondato da sentimenti di grande affetto. Poi m chiamano tutti papà, quindi… Recepisco l’affetto dei tifosi e mi fa molto piacere”.
Il gol di Eto’o a Londra apre la rapsodia di quei due mesi incredibili, dopo la sconfitta di Catania arriva la vittoria a Stamford Bridge. Si narra che Balotelli entrò nello spogliatoio canticchiando l’inno del Milan…
“A me non me l’hanno mai detto”.
Da lì iniziano i 67 giorni più incredibili della storia, due mesi che non torneranno mai più. Come ricorda quei due mesi quasi in apnea?
“Era una musica sempre più forte… Avevo molta fiducia in Mourinho. Anche quando venne fuori la voce del Real Madrid, ci fu una grande complicità nel parlarci. Io mi sono messo d’accordo con Mourinho dopo l’addio di Mancini, che ha messo le basi creando la squadra che poi Mourinho si è ritrovato e che ha migliorato vincendo tutto. Il ricordo di Mancini è molto positivo, sono molto affezionato a lui. Tornando a quei due mesi, non volevo distrarre Mourinho con una polemica, non è successo nulla. La sera di Madrid poteva fare quello che ha fatto, non è tornato a Milano ma gli è concesso perché la sua parte l’ha fatta perfettamente”.
Cosa le è rimasto dentro di Mourinho?
“Il ricordo di una persona particolare, intelligente, importante per la sua professionalità. Era sorprendente che in un carattere che si potesse inventare delle cose avesse una professionalità per inventarsi delle cose. C’era un bellissimo rapporto, affettuoso. Anche se non mi chiama papà… Mourinho non è semplicissimo come allenatore, è molto esigente. Ma è stato l’unico allenatore che non mi ha mai chiesto un giocatore, devo essere sincero”.
Cosa fece scattare la scintilla tra lei e Mourinho?
“Prima della cena di Parigi non ci eravamo mai visti, Mourinho mi colpì quando allenava il Porto e aveva pareggiato una semifinale di Champions in casa col Deportivo La Coruna, e dopo la partita disse di pensare già alla finale. Lì dissi che per me era un fenomeno. Quando ci vedemmo, gli chiesi se fra due mesi avrebbe preso in considerazione l’idea di allenare l’Inter e lui mi disse: ‘Da oggi mi sento allenatore dell’Inter’. Lui è stato sempre molto serio”.
Lei aveva la sensazione che non avremmo perso la finale di Madrid?
“Sì, Mourinho mi tranquillizzava molto per il fatto che studiava benissimo le squadre avversarie. Conosceva benissimo tutto, i movimenti, l’allenatore”.
Lui disse dopo aver visto il Bayern Monaco che avreste vinto 2-0.
“Lui conosceva benissimo le squadre avversarie, e questo mi dava fiducia”.
Antonio Conte è paragonabile a José Mourinho, al di là del ‘peccato originale’ che ha nel Dna?
“Non sono in società, quindi non so quali siano i metodi di Conte e il rapporto coi giocatori. È molto attento e partecipa ai discorsi individuali e cognitivi della squadra, in questo è bravo come Mourinho; però non lo conosco abbastanza bene per fare paragoni, e poi i paragoni tra tecnici non sono mai facili da fare”.
Il fatto che lei fosse un tifoso complicava il rapporto con gli allenatori?
“Non penso di aver rotto le scatole più di tanto ai tecnici, non ho mai fatto le formazioni né pretendevo che fossero schierati giocatori che prendevo. Una volta a Roy Hodgson comunicai che avevamo preso Youri Djorkaeff e lui rispose: ‘Bene, presidente, ma io sarei l’allenatore…’. Non influivo sull’allenatore né lo obbligavo a fare certe cose”.
Ci fu un’ultima cena con José Mourinho?
“Sì, dopo la vittoria in Champions”.
Sull’esonero di Luigi Simoni:
“Ritenevo terribile mandare via un allenatore dopo una sconfitta. Fu comunque un errore, perché Simoni aveva tenuto bene una squadra, valorizzato Ronaldo; allora non avevo capito”.
Possiamo dire che il Triplete 2010 è stata l’ultima vittoria di un certo modo di guidare il calcio, quello dei mecenati?
“Non so se essere d’accordo sul concetto di famiglia che sta addosso ad una squadra, ma i giocatori vedevano che partecipavamo con sentimento alle vicende della squadra, ci vedevano curiosi ed entusiasti. L’Inter ha ora la famiglia Zhang, che guida una grandissima industria ma da quel punto di vista l’immagine è simile. Non so se il Triplete fosse l’ultimo trionfo di un certo calcio, le cifre dei giocatori sono arrivate ad un livello tale che solo le grandissime industrie possono reggere il gioco, e industrie di questo tipo le puoi pescare in Russia, Cina, dove ci sono tantissimi soldi. La passione magari non è la stessa, è un po’ diversa come esperienza; però acquisiscono la sofferenza e uniscono senso del dovere, penso sia questo il segreto per questo mestiere. Non falsando quella che è la tua presenza nella vita”.
Cosa pensa del fatto di abbandonare San Siro?
“Vado a San Siro da quando ero bambino, sentimentalmente e razionalmente mi sembra un’esagerazione. Poi bisogna entrare nei calcoli delle società e nei loro interessi: loro hanno fatto progetti di tipo diverso, dove ottenere benefici sul piano del pubblico ma anche per avere un’attrazione in più, nel caso del Milan per trovare acquirenti finali. L’Inter è invece convinta della bontà del nuovo stadio. Sono realtà lontane dalla storia dei club e di Milano, non possiamo trasmettere loro l’esperienza e l’affetto che abbiamo noi e far capire il significato che ha per noi. Loro fanno calcoli in modo diverso, per loro è il nuovo Duomo e quindi sarà bellissimo, ci abitueremo. Il mondo va avanti così, però per San Siro abbiamo avuto dei sentimenti, la memoria ci porta lì”.
Per il 22 maggio 2020 sono previste celebrazioni per il decennale?
“Io credo che faremo qualcosa coi giocatori”.
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Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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