"Il calcio non è una scienza esatta". Questo l'assioma sul gioco più bello del mondo che resiste da oltre un secolo, ovvero da quando furono stabilite le regole base per praticarlo ma non le formule matematiche per arrivare all'equazione della vittoria. Su questo teorema indimostrabile - assunto come vero per l'evidenza dei fatti che si sono succeduti nelle varie ere di questo sport sfuggente - allenatori, giocatori, critici e osservatori hanno costruito un dibattito sul quale non è stata ancora messa la parola fine. Anzi, proprio per la natura indecifrabile dell'argomento, ognuno può tranquillamente rimanere sulle proprie posizioni anche quando queste sembrano sorpassate da una filosofia più moderna. Per convenzione, infatti, si divide la linea del tempo in cicli aurei, periodi più o meno lunghi nei quali prevale quel modo di intendere il gioco piuttosto che un altro, con la possibilità concreta di ricorsi storici e rivisitazioni. Una scuola di pensiero, per essere definita come tale, deve come minimo essere vincente, in caso contrario verrà tacciata come una moda passeggera che non ha avuto la forza di attecchire nel sempre fertile terreno del football.
Il Dio del calcio non è mai stato un dittatore, ha dimostrato negli anni di poter dar ragione anche a principi agli antipodi: ha premiato il Santo catenaccio, fatto trionfare il calcio totale, coperto di gloria una Nazionale con 5 numeri 10 in campo e quelle con lo spazio come centravanti. Dopo i festeggiamenti, l'Onnipotente non si è mai sognato di mettere in ordine su una scala meritocratica i vari successi, ha lasciato che lo facessero gli uomini. Sempre figli dei loro tempi, e per questo pronti ad assolutizzare la straordinarietà di certe imprese con appellativi che hanno resistito ai segni del tempo. Ecco perché nel 2019, anche pur avendone visto al massimo alcuni frammenti a bassa definizione, tutti gli appassionati sanno riconoscere il Grande Torino, la Grande Inter o la squadra d'oro ungherese. La mitologia che accomuna formazioni filastrocca del calcio anni '50-'60 è ovviamente legata agli allori conquistati dalle stesse, salvo forse l'Arancia Meccanica di Johan Cruijff, quella delle due finali Mondiali perse professando sempre e comunque il proprio credo. Ma è un'eccezione solo in parte: il Totaalvoetbal è rimasto nella memoria di tutti per le tre coppe campioni vinta dall'Ajax dopo quella sollevata da un'altra olandese, il Feyenoord di Ernst Happel. Da questo momento in avanti si apre un capitolo nuovo: l'estetica del gioco da abbinare alla vittoria. Un'eredità ideologica che genererà qualche adepto nel corso degli ultimi 50 anni, tra cui Pep Guardiola e Arrigo Sacchi. Due degni epigoni che sono riusciti a far progredire il Gioco sulla linea evolutiva in mezzo ai tanti tentativi di scimmiottare l'idea originaria. Se con il Profeta di Fusignano – Valdano dixit - "le squadre acquisirono per la prima volta una bellezza estetica anche in fase di non possesso", il catalano a Barcellona diventa famoso per il 'tiki taka', possibile grazie all'irripetibile congiunzione astrale di avere 7-8 titolari usciti dalla cantera dotati di una tecnica di base ben oltre la media e sulla stessa lunghezza d'onda a livello di pensiero. E in entrambe le epopee è sempre arrivato un turning point non dipendente da fattori controllabili dagli attori protagonisti a determinare il classico colpo di scena: per il Milan fu decisivo il nebbione omerico di Belgrado, mentre il Barça venne agevolato da un arbitraggio a dir poco discusso del norvegese Ovrebo nella semifinale contro il Chelsea.
Tutto questo per dire che alcune vittorie che diventano patrimonio del calcio hanno sempre una componente minima di fortuna, un assist del destino. Anche i sistemi partoriti da uno studio matto e disperatissimo del Gioco non possono essere scientifici. Gli esperimenti sulla carta, quelli fatti dai cosiddetti teorici, poi devono passare l'esame del campo, dove i pratici stringono spesso le mani ai risultatisti. Un allenatore può incarnare tranquillamente le due personalità, senza offendersi per qualche appunto fatto da un talent televisivo (ogni riferimento ad Allegri vs Adani è puramente casuale) per una determinata scelta. In ogni caso, è meglio diffidare da due categorie di tecnici: i santoni della panchina che pretendono di vincere portando quanto di scritto nei libri su un rettangolo verde senza tenere conto della mediazione dei giocatori, e quelli che il 'calcio è una cosa semplice' e quindi è inutile complicarlo con schemi che tanto sono i campioni che vincono le partite. Per i primi la vittoria non è tutto, conta dare emozioni o lasciare una traccia; per i secondi si riduce tutto al contare i trofei in bacheca, anche a costo di non pesarne il valore. Per entrambi, come ha fatto notare un certo Arsene Wenger, l'anticipatore della moderna Premier League, poi inghiottito dalla sua stessa rivoluzione culturale, dovrebbe valere questa massima: "Il calcio non è una partita a scacchi. Gli allenatori sono importanti, ma è la qualità dei giocatori in campo che vince le partite". Già, i giocatori: ieri sera, al Camp Nou, è stato scritto il manifesto più compiuto di cosa voglia dire avere Lionel Messi dalla propria parte. E non è un caso se Guardiola, oggi manager di quel Manchester City degli sceicchi uscito per dettagli dall'Europa ai quarti di finale, da un po' sostiene senza alcun tipo di vittimismo che la favorita per la vittoria della Champions sia sempre "la squadra che ha in rosa Messi".
In mezzo a questa visione manichea del mondo c'è José Mourinho, per molti un semplice motivatore-comunicatore o, in senso spregiativo, il demiurgo dell'antimateria che ha neutralizzato il Barcellona dei marziani nel 2010. "La mia filosofia di gioco? Dipende. Se bisogna calarsi nella storia di un club per allenarlo oppure imporre le proprie idee ignorando il contesto? Dipende", ha detto recentemente lo Special One, che non verrà ricordato come un innovatore tattico ma sicuramente come allenatore viandante che ha vinto ovunque sia andato. Forse perché ha saputo essere teorico e pratico nello stesso momento.
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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