A questo punto, non sono più semplici lamentele di facciata o dichiarazioni dettate dall’istinto, quanto piuttosto un fatto conclamato: il calciomercato estivo dura troppo. Perché ora, ci hanno pensato anche gli addetti ai lavori a togliere il coperchio da questo benedetto pentolone. Si era espresso in questo senso nei giorni scorsi uno dei pezzi da novanta del management calcistico italiano quale Beppe Marotta, che si è detto estremamente favorevole all’idea di accorciare la sessione pre-stagionale almeno fino al via dei campionati principali, per via delle troppe problematiche che sorgono anche in tema della gestione dei casi spinosi, trovando in questo anche la sponda di Piero Ausilio. E alla vigilia della cruciale sfida di questa sera della nostra Nazionale al Santiago Bernabeu contro la Spagna, anche il ct azzurro Giampiero Ventura ha voluto alzare il sipario su questa situazione che causa imbarazzi anche a quello che è il suo lavoro. Tutto questo mentre i club della Premier League sembrano decisi a passare all’azione chiedendo provvedimenti in tal senso.
Il mercato estivo dura troppo ed è un disagio per tutti, e adesso il malcontento comincia a montare. Perché è vero, alla fine il fatto di poter fare operazioni per quasi tutto il periodo estivo andando anche oltre l’avvio dei campionati fa perdere molto spesso il senso di un’intera preparazione pre-campionato e non consente di dare il giusto peso ai risultati ottenuti in avvio di stagione, che potranno sì essere veritieri fino ad un certo punto data la lunghezza della stagione ma che comunque possono infondere fiducia e dare un senso compiuto al resto del cammino. Ma soprattutto, un’estate pressoché intera immersa nella cappa della campagna acquisti dà facilmente adito, e mai come quest’anno è successo, a caterve di voci incontrollate, a telenovele estenuanti e anche a improvvisi e deleteri ribaltamenti di tavoli e prospettive. Con conseguenze per certi versi inaspettate e drammatiche.
Cosa è successo all’Inter? Perché l’estate nerazzurra, mentre sul campo Luciano Spalletti cominciava a lavorare su una rosa nel tentativo, sin qui riuscito bene, di eliminare tutte le scorie mentali derivanti dall’ultima catastrofica annata e ridare innanzitutto dignità al gruppo nerazzurro oltre che un’idea precisa di gioco, ha visto in fase di trattative un capovolgimento delle aspettative? In che modo si è passati dai grandi sogni di inizio estate ad una realtà che ha visto Piero Ausilio e Walter Sabatini a fare, ad essere buoni, le nozze coi fichi secchi, malgrado la presenza alle loro spalle di una proprietà che se l’attività di un club dipendesse dai soli introiti e ricavi di certo non avrebbe alcun bisogno di ricorrere ad alcun tipo di percorsi alternativi rivelatisi poi addirittura più accidentati di quelli iniziali. Un cambiamento di rotta evidenziato anche dallo stesso tecnico, che non ha mancato di sottolineare come gli obiettivi di partenza erano altri.
Intendiamoci: guardandolo in senso assoluto, l’operato dell’Inter è stato positivo, checché possano pensarne i catastrofisti a tutti i costi, di qualunque categoria; perché se quasi tutti gli addetti ai lavori importanti concordano su questo giudizio è difficile credere che siano tutti preda di un abbaglio collettivo. Sono arrivati giocatori interessanti specie in reparti dove la qualità latitava, anche a costo di lungaggini clamorose con venditori spesso duri d’orecchie, e si è fatta gagliarda insistenza. Ma proprio nel momento in cui bisognava dare la sferzata decisiva, l’Inter è andata in cotta, vittima di un improvviso affanno dovuto all’assenza di fondi che ha reso un tormento anche trattare per ottenere dei prestiti. Col risultato che purtroppo si è svelata l’altra faccia della medaglia, quella di una rosa incompiuta con falle evidenti nel reparto difensivo, dove il ricorso alle sabatiniane ‘risorse interne’ magari riadattate in altri ruoli avrebbe dovuto essere l’eccezione e invece rischia di diventare una regola.
Emblematica la vicenda di Patrik Schick, dato dai più pronto ad abbracciare la causa nerazzurra ma poi finito oggetto di un’asta che ha visto vincitore il patron della Sampdoria Massimo Ferrero, che ha ottenuto un cospicuo gruzzoletto con relativa maxi-plusvalenza dalla Roma, che con l’arrivo del ceco ha vinto il duello sul mercato coi nerazzurri dopo aver perso quello (al momento francamente più importante) sul campo sabato scorso all’Olimpico. L’addio a Keita Baldé, finito al Monaco, non è che l’anello successivo di questa catena di imprevisti, e tanta grazia se alla fine si è chiusa positivamente la caccia al giovanotto francese Yann Karamoh.
E puntualmente, soprattutto sui social network, si è scatenata una lunga caccia al colpevole. E nel mirino, più di chiunque altro, pare esserci la proprietà nerazzurra di Suning: loro, arrivati tra mille fanfare, che hanno dato in pasto alla folla proclami di grandeur e di voglia di riconsegnare l’Inter ai fasti di un tempo, catena di promesse rivelatesi poi da marinaio, sentinelle agli occhi di tanti di un generale disinteresse o di una semplice voglia di farsi mera pubblicità. Con contorno di frustrazioni sfogate anche a commento delle notizie meno inerenti alla questione, che però sbattono contro un’altra realtà: la realtà di un gruppo che da quando è arrivato alla guida dell’Inter si è comunque prodigato non poco economicamente per rimettere a posto i conti del club nerazzurro e che non ha fatto mancare il proprio sostegno e che non ha certo lesinato investimenti per nuovi giocatori.
Soprattutto, un gruppo che continua a pensare che l’Inter sia il fiore all’occhiello degli investimenti e ne fa parte integrante delle proprie strategie con tanto di parte predominante anche nei video promo-istituzionali, compreso l’ultimo con tanto di balletto, alquanto kitsch per la verità, in stile Rovazzi. E che, udite udite, il grande colpo per questa stagione lo voleva fare sì: perché certi nomi circolati a inizio mercato che solo per noia non saranno citati non erano solo miraggi, ma idee. Ma idee che dovevano avere un conforto importante sul piano economico, che prescindeva da quelle che sono le disponibilità del gruppo di Nanchino. In sintesi: serviva accumulare soldi attraverso una cessione, magari quella di Ivan Perisic per il quale però il Manchester United non ha mai raggiunto la cifra richiesta e per il quale l’Inter non ha mai mollato nemmeno di un centimetro. Dimostrazione di attributi importante che però alla lunga si è ritorta un po’ come un boomerang. I muri di gomma coi quali sono poi andati a scontrarsi hanno fatto il resto.
Da quel momento, arriva l’inatteso cambio di rotta. Dovuto a tante concause, di cui tutte sono importanti e nessuna forse la principale. Il dovuto rispetto degli accordi con la Uefa che prevedono il raggiungimento del pareggio di bilancio anche per questa stagione (anche se le dichiarazioni di Ausilio di mercoledì suonano molto, molto stridenti), che si può anche far saltare ma poi chi se la sente di correre il rischio di giocarsi l’eventuale Champions League con una rosa ridotta come avvenuto nell’ultima, imbarazzante, campagna europea, in base a regole che, guarda caso, ha dovuto rispettare anche il Psg inventandosi la formula astrusa del prestito per Kylian Mbappé; i famigerati miti consigli ai quali il proprietario Zhang Jindong pare essere stato portato dal governo cinese, tralasciando chi approfitta della questione per provare a buttarla in volgare caciara politica; il non poter andare oltre una certa percentuale di spese per gli ingaggi rispetto al fatturato, voce che oggi risulta fortemente penalizzante per la squadra e sulla quale si sta lavorando tanto; ma anche l’intenzione di avvalersi di quelle che sono le richieste specifiche dell’allenatore e non di eventuali eminenze grigie, valutando tutti i rischi d’investimento dopo che il primo anno non ha portato grossi risultati malgrado l’ingente quantitativo di spese e dedicando un budget specifico.
Tutto questo ha portato alla situazione rimasta sotto gli occhi di tutti fino a ieri l’altro: stroncati purtroppo i sogni di un top player, si è preferito alla fine costruire una squadra in base ai dettami di Luciano Spalletti, e se quelli scelti sono per lui quelli ideali per raggiungere il fatidico traguardo della Champions League, mai come dalla prossima stagione il confine sottile tra paradiso e inferno visto l’aumento dei premi, con conseguente ritorno all’appetibilità anche tra i giocatori di un certo livello, allora siano nomi benedetti e ben accolti. E largo anche alla programmazione a lungo termine con dediche al settore giovanile, infarcito di giocatori di primissimo rango per le varie categorie, Primavera in primis, con tutta l’intenzione di ben figurare nella Youth League oltre che di confermarsi in campionato. Secondo la logica nella quale ormai è rientrata l’Inter: non più società di passioni e di capitali gettati a fondo perduto, ma parte integrante di un gruppo industriale e fortemente integrata nelle sue linee guida.
Purtroppo, però, in tanti, abbacinati da dati e numeri, pronti a tacciare di cassandrismo chi magari aveva provato ad avvisare in anticipo che non sarebbe andata in un certo modo, e abbagliati da un hashtag al quale si è dato forse una valenza eccessiva rispetto a quelle che erano le reali premesse alla base, vedono tutto questo solo come un grande pasticcio, arrivando anche a indicibili improperi verso chi invece sull’Inter ha deciso di crederci e puntarci forte nonostante una credibilità internazionale scalfita nel giro di pochissimi anni dal Triplete da scelte scellerate e una gestione ormai anacronistica e pertanto costretta, volenti o nolenti, a rifarsi una nuova immagine. Ma se a Suning qualcosa si può rimproverare, di sicuro quella è la carente comunicazione circa i propri intenti. Forse una questione culturale, forse ancora un concetto di gestione calcistica ancora molto lontano dagli standard ai quali siamo abituati.
Ma ancor più che comunicare (che poi nel caso andrebbe fatto con coloro che nell’Inter hanno investito in azioni, da non confondere con biglietti o abbonamenti), visto che con la distanza magari il messaggio che si vuole mandare rischia di arrivare spurio o denudato della consistenza, Suning deve in primo luogo fare una cosa: cominciare a essere presente. Ed essere presente vuol dire stabilire una propria presenza fisica con il settore sportivo a Milano, magari non intitolando col proprio nome la via del quartier generale come è avvenuto a Nanchino, ma cercando a vivere sempre a stretto contatto con la realtà italiana. La sola presenza di Steven Zhang, bravo, preparato e sempre più appassionato, non può essere sufficiente, mera sovrastruttura senza una struttura solida che possa toccare con mano e a chilometro zero tutto quanto circola nel mondo nerazzurro.
E in attesa di avere ragguagli a medio termine sulle intenzioni dell’ancora presidente Erick Thohir in merito al famoso 31% ancora in suo possesso, potenziale punto focale dei destini interisti, mai come ora deve essere presente il tifo, che non usi il pretesto di un acquisto anche al fantacalcio in più o in meno o di una foto in aeroporto che manca per far venire meno il proprio sostegno alla squadra. Non lo merita nessuno.
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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