José Mourinho a cuore aperto, L'ex allenatore dell'Inter, oggi manager del Tottenham, ha rilasciato un'intervista al magazine del quotidiano Il Sole 24 Ore nella quale racconta la sua carriera e la sua visione del mondo del calcio in questi trent'anni che lo hanno visto a più riprese sulla cresta dell'onda. Questi alcuni passaggi importanti delle sue dichiarazioni: "Come è cambiato il mio mestiere? È cambiato tanto, così com'è cambiato il mondo in cui viviamo. C'è stata una grande evoluzione sia in termini di coaching sia in termini di gestione dei giocatori e delle squadre di calcio. Tutto è diventato più veloce, più intenso. Per quanto mi riguarda, sono lo stesso “ragazzo”, ho gli stessi princìpi di allora, la stessa identica passione. Ma come è cambiato il gioco, sono cambiati anche i metodi di allenamento, basati su ricerca e statistiche. Oggi la figura dell'allenatore si è evoluta diventando il vertice di una struttura complessa all'interno della quale operano diversi professionisti".
Il momento più emozionante?
"Senza dubbio, battere il Barcellona con l'Inter per 3 a 1, il 20 aprile 2010. Per i giocatori, per me, per i tifosi, è stato il massimo. Eravamo una squadra di eroi. Abbiamo sudato sangue, ma alla fine abbiamo vinto".
E quello più difficile?
"L'eliminazione dalla Champions League quando allenavo il Real Madrid. Eravamo senza alcun dubbio la migliore squadra d'Europa, abbiamo vinto la Liga battendo tutti i record di punti e gol e avremmo vinto quella finale, ne sono certo. Ma quando Ronaldo, Ramos e Kakà sbagliano i primi tre rigori, sai che non è il tuo anno".
È il decennale del Triplete raggiunto dalla sua Inter, stagione 2010. Un trionfo memorabile, e un capitolo degno di nota nella storia del calcio europeo.
"Quell'impresa significa ancora tanto per me. L'Inter era la mia casa, la mia famiglia. Massimo Moratti era un amico, il mio presidente. L'impresa del Triplete è stata fantastica e resta indimenticabile. Dopo la finale di Madrid, se fossi tornato a San Siro per festeggiare con giocatori e tifosi non avrei mai lasciato l'Inter. Dire addio a una famiglia è una cosa molto difficile da affronare. Dieci anni dopo, continuiamo a essere una famiglia. È stata questa la nostra forza anche sul campo, siamo amici e lo saremo per sempre. La sera in cui abbiamo vinto la Coppa la decisione era già stata presa: non potevo dire no al Real Madrid per la terza volta. Ma mi guardo indietro con grande serenità e orgoglio".
Vittorie, accese rivalità e una personalità che non lascia indifferenti: è riuscito a farsi degli amici nell'ambiente?
"Ma certo. Quando entri in un club, il club diventa famiglia e i legami possono durare nel tempo. Sono ancora amico di molti giocatori e persone dello staff di squadre con cui ho lavorato durante la mia carriera. La mia priorità è sempre stata quella di stabilire relazioni affettive all'interno del gruppo, per creare stabilità. Voglio bene ai miei ragazzi, Marco Materazzi, John Terry… Penso che il nostro legame durerà per sempre, e ne vado fiero".
Ci racconti del suo legame con Milano, città dove è stato particolarmente felice.
"Sì, a Milano ero felice. In realtà, in quel periodo, la mia vita si divideva tra Appiano Gentile e Como. Per me Milano era San Siro, lo stadio, la tifoseria, l'Inter e l'interismo. È un luogo speciale che mi porterò sempre nel cuore; una città con cui ho un legame sentimentale fatto di ricordi magnifici. Uno su tutti, l'ho detto prima e lo ripeto, la vittoria del Triplete".
Quando fa un bilancio della sua carriera, si è mai pentito di qualcosa? Ha rimpianti?
"Mi pento di alcuni episodi aggressivi avvenuti sulla linea laterale. Per esempio: con Arsène Wenger, abbiamo avuto battaglie incredibili, grandi partite e grandi lotte. Rimpianti? Piccoli episodi negativi, sì, e probabilmente anche lui prova lo stesso".
Tornerà ad allenare da noi?
"Non credo. È una sensazione, ma non penso che nel mio futuro ci sia l'Italia. È anche vero che il mondo del calcio è così imprevedibile, e non si può mai dire mai".
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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