Perché 22 stranieri in campo sabato scorso a San Siro? Perché comunque 16-17 in campo ogni domenica? Perché in sostanza non ci sono più giocatori italiani? Mario Sconcerti elenca cinque motivi sul Corriere della Sera.

1 La crisi è cominciata una decina di anni fa. Quando vincemmo il Mondiale nel 2006 eravamo già una squadra vecchia, c’era il meglio di un’altra generazione. Da allora non è nato più niente. La prima causa arriva dalla fine delle società che facevano da vivaio per tutti, la vecchia Atalanta, il Chievo, il Vicenza di altre stagioni, le buone provinciali in genere che si mantenevano in A facendo scuola e vendendo i loro ragazzi migliori. Con l’arrivo dei diritti televisivi, cioè una base assicurata alle più piccole di circa 30 milioni, lo scopo si è rovesciato. Avere molti giovani significa rischiare in classifica, il vero risultato è rimanere in A e accedere ai finanziamenti della tv. Questo ha portato a costruire squadre solide, piene di giocatori esperti.

2 I giocatori italiani costano spesso di più perché sono scelti su un mercato stretto a una ventina di elementi. Mandragora, Grassi, per non parlare di Zaza o Berardi, Romagnoli o Bertolacci, hanno prezzi impensabili in un normale mercato mondiale fatto di migliaia di giocatori. Gerson, brasiliano preso a gennaio dalla Roma, è forse il miglior progetto al mondo. È stato pagato tantissimo, ma meno di Bertolacci, Berardi e di altri. Vecino è costato un terzo di Grassi, Badelj la metà.

3 Manca per i giovani una selezione alla base. Il campionato Primavera è inutile. Il perché è semplice: in Primavera si mescolano 42 squadre, tutta la A e tutta la B. Poi si dividono le squadre in tre gironi di appena 14 squadre. Il risultato è una differenza di qualità tra avversari molto alta. Questo porta a non avere più di cinque-sei partite vere a campionato. E se giochi partite facili, non cresci. La conseguenza è che si portano al professionismo (18 anni) ragazzi ancora immaturi, molti falliscono anche le prime stagioni in B o Lega Pro.

4 L’emigrazione dei migliori allenatori italiani verso l’estero (Mancini, Lippi, Capello, Prandelli, Guidolin, Ranieri, Spalletti, Conte, perfino Trapattoni e Ulivieri) ha indebolito l’insegnamento del nostro calcio di base portando nuove generazioni di tecnici giovani a preferire altre idee. Il risultato è stato normalizzarsi. Non giochiamo più secondo i nostri schemi e applichiamo male i migliori schemi degli altri. Il nostro possesso palla non è aggressivo, spesso è un rimpallo reciproco, un vero piccolo catenaccio in mezzo al campo. Così sono scomparse profondità e velocità, cioè la prima costruzione del calcio all’italiana e la sua prima invenzione. Siamo in una fase di mezzo che non aiuta a crescere nessuno.

5 Le scuole calcio hanno tolto i bambini dalle strade. Questo è un vantaggio per le madri, ma un danno profondo per il calcio. Nella strada, negli oratori, nelle periferie, giocavano i migliori, erano scelti dai loro stessi compagni, vigeva una democrazia del merito. Nelle scuole calcio giocano per anni tutti perché tutti ogni anno pagano l’iscrizione. Di fatto si è cancellata la qualità individuale e si è parcellizzato il divertimento. Non solo, ma se tutti i ragazzi vanno a scuola di calcio, chi sono i loro insegnanti, che garanzia di qualità portano? Sono circa 50mila e hanno ottenuto il patentino in pochi giorni di corso nel dopolavoro. La differenza di un ragazzo si vede a 8-9 anni, a 14 è già carico di limiti eventuali. Cos’è accaduto nel mezzo? Niente. Molto meglio andare a cercare fuori un prodotto finito.

Sezione: News / Data: Lun 25 aprile 2016 alle 10:00 / Fonte: Corriere della Sera
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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