"Giocavo per strada, giocavo all’oratorio. La prima porta nella quale ho segnato era una cabina dell’Enel. Io, lei non ci crederà, nasco milanista. E per tutta la vita ho portato la maglia nerazzurra. Le combinazioni della nostra avventura umana". A parlare è Beppe Bergomi, intervistato dal Corriere dello Sport. Lo Zio racconta se stesso attraverso aneddoti e fotografie di una straordinaria carriera. Ecco qualche stralcio.
Quando andò all’Inter?
"In verità mi volevano la Juventus, il Fanfulla e altre squadre. Ma scelsi l’Inter. Mi impuntai io, ero un bambino di tredici anni. Mi aveva fatto una buona impressione l’ambiente e poi era vicino casa. Ci sono restato vent’anni".
Lei esordì non solo con i calzoncini corti ma quasi con i pantaloni corti da scuola media…
"Avevo sedici anni, l’età di Donnarumma. Giocai contro la Juventus, in Coppa Italia, finì 0-0. Poi arrivò il giorno dell’esordio vero, in campionato. Era il 22 febbraio del 1981. Ie ricordo tutte le date, in forma quasi maniacale. Ero andato al ristorante del settore giovanile e aspettavo il pullman con gli altri. L’allenatore mi disse che invece dovevo andare un po’ più in là, dove c’era quello che portava ad Appiano Gentile, perché i “grandi “ mi aspettavano. Poi fu un insieme di coincidenze. La notte venne un attacco di appendicite a Canuti. In campo Oriali si ruppe in un contrasto con un giocatore del Como. Bersellini, il mister, guardò la panchina. Eravamo tre difensori: Pancheri, Tempestilli ed io. Fece scaldare Pancheri. Poi mi guardò e mi disse “Scaldati anche tu, ragazzo”. E poi disse ancora “Entra, ragazzo”. Entrai. Avevo diciassette anni e due mesi. Sono uscito da quel campo e da quella maglia che ne avevo trentasei".
Poco più di un anno dopo lei diventa campione del mondo. Un caso quasi unico al mondo. Solo Pelè era più giovane di lei.
"Sempre per le date, io faccio il mio esordio in nazionale il 14 aprile del 1982. Avevo diciotto anni e mezzo. La partita è a Lipsia. Una città che ricorre, nella mia vita, con ricordi e sentimenti di segno opposto. Ero lì con la nazionale giovanile quando mi avvertirono della morte di mio padre. E proprio lì, nella città di Wagner, qualche mese dopo inizia la mia meravigliosa avventure azzurra".
Si ricorda qualche conflitto nello spogliatoio?
"In Nazionale no. C’è un clima particolare e i giocatori sentono più responsabilità. Nei club è più facile. Ricordo una rissa tra Passarella e Altobelli perché Spillo aveva tirato un rigore togliendo la possibilità di farlo a Daniel che era il rigorista primo. Ce ne fu un’altra tra Orrico e Klinsmann e intervenne Zenga per dividerli. Anche durante gli allenamenti, magari per una entrata eccessiva. Ma può succedere. Io discussi solo con Roy Hodgson. Tutti gli altri mi facevano giocare, lui no. Avemmo un chiarimento e dopo si instaurò un ottimo rapporto".
Quali sono stati gli allenatori più importanti per la sua carriera?
"Certamente il Trap. E’ stato un grande tecnico e un grande maestro di calcio. Io ricordo che a Matthaeus chiedeva di fermarsi dopo l’allenamento per migliorare il sinistro. Con lui vincemmo molto. Con Orrico le cose erano più complicate. Zenga, Ferri e io venivamo incolpati dalla stampa perché non capaci di passare alla filosofia della zona. Poi arrivò Bagnoli, persona davvero fantastica. Io volevo andare via. Mi avevano cercato Roma, Lazio e Bayern. Lo dissi al mister che mi rispose, nel nostro dialetto, “Per me tu sei il più forte che c’è”. Restai e fui felice di farlo. Era umanamente molto ricco e tecnicamente e tatticamente all’avanguardia. Lui faceva il 3-5-2 nel 1993. Usava la lavagna magnetica quando per molti era un stregoneria. Un difetto? Lui aveva, come nel Verona, i suoi undici. Quando il gruppo si allargò lui ebbe difficoltà a gestirlo. Ma è stato un grande allenatore e una grande persona".
Ho sentito che lei, persona equilibrata, non ha ancora digerito la vicenda del rigore su Ronaldo in Juve-Inter del 1998.
"Guardi, in quel campionato successero molte cose strane. E quella di Ronaldo è ancora, per noi, una ferita aperta. Lungo tutto il torneo ci fu una gestione dei cartellini micidiale per noi. A noi fischiavano tutto. A Iuliano, che si aggrappava all’avversario come pochi, veniva concesso tutto. Ma ormai è storia".
Lei poi ha giocato altri tre mondiali. Fino a quello di Francia del ‘98 a cui arriva trentacinquenne. Solo Sacchi non la convocò, nel 1994. Perché?
"Ne abbiamo parlato, recentemente, con il mister. Mi ha detto che io avrei potuto essere il suo giocatore ideale, per tecnica e per carattere. Ma non avevo mai praticato la sua filosofia calcistica e lui non aveva più il tempo per spiegare i movimenti tattici. Mi è dispiaciuto molto. Lavorare con Sacchi sarebbe stato interessante".
La squadra la cui maglia lei ha impressa addosso può vincere lo scudetto?
"L’Inter quest’anno è forte e il clima che si sta creando è quello giusto. Il mio amico Vialli dice che c’è il “believing”, che tutto l’ambiente ci crede. Lo si vede dalle presenze allo stadio. E poi ha un allenatore capace. La squadra è molto fisica, non prende gol, comincia a farne. L’avversario sarà la Juventus, come sempre".
La sua formazione ideale?
"La schiererei con il 4-3-1-2. Zoff; Brehme, Baresi, Maldini, Roberto Carlos; Tardelli, Matthaeus, Platini; Maradona; Ronaldo il fenomeno e Van Basten. Allenatore Trapattoni".
Cosa vuol dire, nella carriera di un giocatore, restare sempre con la stessa maglia?
"In effetti siamo in pochi ad averlo fatto. La mia è stata una scelta. A quella squadra, a quella maglia ho dato tutto me stesso. Forse mi faccio un solo rimprovero. A fine carriera avrei dovuto rinviare un po’ l’addio al calcio. Mi volevano al Coventry, dovevo finire lì. Mi sarebbe stato utile conoscere un altro mondo. Ma va bene così. Ho fatto quello che volevo da bambino, quando vincevo contro la cabina Enel. Mi sono divertito vivendo con il gioco più bello del mondo. L’ho praticato con la passione e l’emozione che ha un bambino che per la prima volta indossa una maglietta pulita o scende su un prato verde. Va bene così".
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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