24 Novembre 2016, esterno notte: l'Inter viene eliminata in maniera disonorevole dall'Europa League e si appresta ad affrontare un campionato in cui occupa il nono posto a quindici punti dalla vetta e a otto dal terzo posto, obiettivo minimo dichiarato del club per questa stagione. L'incipit del film da incubo nerazzurro parte in medias res, nel mezzo di una storia di cui si conoscono solo gli effetti, mentre le cause sono lasciate alla fantasia dei telespettatori. Pardon, tifosi.
Proprio le suddette cause, che hanno portato all'ennesimo tracollo post-Triplete, possono essere ricercate solo attraverso un lavoro completo di flashback che parta dall'anno domini 2010, con un percorso a ritroso nel tempo che provi ad individuare la radici di un problema che sei annate dopo sembra ancora inestirpabile. E dire che la prima decisione dopo il commiato, sofferto ma necessario, con José Mourinho è catalogabile tra quelle più acute dell'intera gestione: scegliere un maestro placido come Benitez dopo l'uragano Special One sembrava la scelta più logica, oltre che quella più prestigiosa, per far proseguire un ciclo che non si esaurisse come un fuoco fatuo dell'irrepetibilità di tre vittorie in un'unica stagione. Sembrava, appunto: se da una parte Rafa fece di tutto, sbagliando certamente nei modi, per far tabula rasa di tutto ciò che era stato, dall'altra i giocatori - seduti fieramente su un piedistallo agognato per un'intera carriera - trasformarono la loro guida tecnica in una semplice vittima prestata al gioco dell'insubordinazione. E lo fecero con l'appoggio di un presidente, Massimo Moratti, che preferì punire la sincerità di Benitez in sede di richiesta del rafforzamento della rosa, piuttosto che richiamare alla responsabilità un gruppo che per esperienza e maturità avrebbe dovuto comportarsi in maniera più elastica. Si decise, quindi, di puntare su Leonardo, quell'inguaribile sognatore che seppe far leva sui tanti pregi di una squadra che orgogliosamente si sentiva ancora la migliore in Italia, ma che non aveva imparato a fare i conti con la realtà storica in cui era calata. Dalle ceneri di Atene, infatti, era risorto il Milan, squadra che colmò il gap sopratutto con l'acquisto di Ibrahimovic, ma che non ebbe bisogno dell'estro dello svedese per annichilire i nerazzurri nel derby scudetto giocato sciaguratamente dal punto di vista tattico da Leo. Il brasiliano, comunque, prima di salutare, portò l'ultimo afflato di gloria mettendo in bacheca la Coppa Italia, l'ultimo trofeo conquistato dall'Inter quasi a chiudere il cerchio che si era aperto nel 2005 con il trionfo nella coppa nazionale. Il 1º luglio 2011 il club nerazzurro annuncia la risoluzione consensuale con l'ex Milan e ingaggia - udite, udite – Gian Piero Gasperini, uomo all'epoca anacronistico per guidare una squadra non preparata ad accogliere una proposta di gioco differente e un metodo di allenamento che comportava un lavoro troppo intenso per un gruppo che si era imborghesito. Gasp dura il tempo di cinque partite ufficiali, tra le quali il derby di Supercoppa giocato con il Milan a Pechino. Risultato? Esonero inevitabile e arrivo di Claudio Ranieri, il normalizzatore. L'attuale tecnico del Leicester City campione d'Inghilterra in carica dura appena sei mesi e imputa l'esonero precoce a due situazioni attorno alle quali permangono grosse nubi: la prima risiede nelle difficoltà economiche del club che determinò le cessioni di Coutinho, in prestito, e, soprattutto, Thiago Motta, mentre la seconda è da addebitare alle pretese fuori da qualsiasi portata avanzata da qualche figura vicino al presidente Moratti che pensò bene che dopo le sette vittorie consecutive si potesse puntare allo scudetto. Altro errore di valutazione e... avanti un altro.
E quell'altro è Andrea Stramaccioni, virgulto tecnico reduce dalla vittoria ai rigori con l'Ajax nella Next Generation Series, la vecchia Champions League della Primavera. Strama, per cui Moratti nutre una stima sproporzionata, chiude una delle annate più travagliate della storia recente interiste con 5 vittorie, 2 pari e 2 sconfitte che valgono il sesto posto in classifica e i preliminari di Europa League. Con questo score si riaffaccia alla nuova e ultima stagione, non certo indimenticabile, se si eccettua la prima, storica violazione dello Juventus Stadium. Al tecnico romano, neanche a dirlo, capita la stessa sorte di tutti gli altri colleghi suoi predecessori: 'grazie e tanti cari saluti'.
Il timone lo prende in mano Walter Mazzarri, che il 24 maggio 2013 firma un accordo biennale, poi prolungato il 2 luglio dell'anno successivo fino al luglio 2016, in conseguenza del buonissimo quinto posto ottenuto con una squadra che definire modesta è farle un complimento. Ma proprio per debellare la mediocrità, cui si stava assuefacendo la squadra, la nuova proprietà guidata da Erick Thohir decise per la restaurazione degli antichi fasti con la chiamata di Roberto Mancini, alias l'allenatore che ha riscritto la parola 'vittoria' nelle pagine del vocabolario della storia nerazzurra dell'era moderna. Peccato che il Mancio, giunto in corsa ad Appiano Gentile a fine novembre 2014, si sia trovato a guidare una squadra non sua, provandole a dare un nuovo volto nuovo con dei ritocchi discutibili effettuati nel corso del mercato di riparazione. L'epilogo è noto a tutti: ottavo posto, Europa vista dalla tv e piano rivoluzionario già in atto dal post Inter-Empoli, ultima gara di campionato ('Cambierei 8-9 giocatori', disse lo jesino in conferenza). La stagione passata è ben chiara a tutti vista la vicinanza temporale: partenza fulminante ai limiti dell'illusorietà, poi calo in picchiata a stabilire una normalità a cui in casa Inter non si è mai stati abituati. Ci sarebbe anche un quarto posto da cui costruire le fondamenta, ma quello diventa un punto marginale se messo in controluce con la differenza di vedute tra la nuova proprietà (già, perché nel frattempo Suning ha preso il comando della baracca) e l'ex manager del City. Due punti di vista che non si incrociano mai e che portano alla frattura insanabile in data 8 agosto, praticamente a un soffio dall'inizio di questa tribolata stagione. Alcuni lo definiscono il peccato originale, ma le righe sopra sono lì a dirci che non è esattamente così; fatto sta che De Boer è solo il primo dei tre successori di Mancini. Dopo l'olandese, scelta quantomeno imprudente operta da ET viste le contingenze, ecco l'allenatore ad interim Stefano Vecchi e, infine, Stefano Pioli, il potenziatore.
Tutti personaggi che recitano inconsapevolmente un copione scritto da uno sceneggiatore folle, la cui identità è nota ma coperta da troppe maschere. Individuate voi le origini del Male. 

Sezione: Editoriale / Data: Sab 26 novembre 2016 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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