C'era una volta un tecnico costretto ad affidarsi ad un nucleo di titolarissimi per costruire un'identità di squadra e per non evidenziare le note carenze tecniche della rosa.

C'era una volta un uomo ferocemente critico verso stesso e il proprio fantastico operato, a tal punto da sembrare persino troppo protettivo nei confronti delle altre anime del club. 

C'era una volta un manager che si recava in sede con l'unico pensiero in testa di nascondere i cartellini dei giocatori per evitarne la cessione nel mercato invernale.

C'era una volta un condottiero che difendeva il 4-2-3-1 perché riteneva necessario che i suoi giocatori continuassero a recitare a memoria, perfino ammettendo balbettii, quanto di buono esibito in cinque mesi e non smentire il carico di autostima accumulato solo per tre sconfitte che non possono determinare la perdita della guerra a metà della stessa.

C'era una volta un comandante a cui non sembrava appropriato mettere in discussione i suoi 11-12 fedelissimi per il semplice motivo che sarebbe stato imprudente andar in giro a dire che ce ne sono di migliori nel mondo dopo un viaggio entusiasmante di 19 giornate.

C'era una volta un accentratore di negatività meraviglioso che trovava nella forza dei numeri il sano ottimismo che solo un terzo posto, anche se parziale, a quota 41 punti può regalare.

C'era una volta un acrobata che a dicembre sfidava il crollo delle sue capacità, pur di mantenersi in equilibrio sul filo sottilissimo che separa l'obiettivo massimo dal fallimento sportivo.

C'era una volta un uomo forte, come il destino di cui è sempre andato predicando, che capiva che per costruire il proprio futuro bisogna conoscere il passato per evitare di incorrere negli stessi errori.

C'era una volta un signore, intrappolato in un presente senza apparente via d'uscita, che per qualche giorno respirava – come già i suoi precedessori illustri o meno illustri - l'aria viziata di un ambiente che è rimasto per anni assuefatto alla mediocrità di chi preferisce la rassegnazione al guizzo di orgoglio che è indispensabile per cambiare il corso degli eventi.

C'era una volta Luciano Spalletti, che nel giorno della sua presentazione da tecnico dell'Inter esortava "tutti a essere un po' più ambiziosi". E che a precisa domanda se l'arrivo nel club nerazzurro fosse il non plus ultra della sua carriera rispondeva con forza: "Se non cambiamo, non cresciamo; se non cresciamo, non viviamo bene la vita".

C'era una volta un interista, innamoratissimo della sua squadra dopo aver visto l'affetto e la partecipazione dei tifosi anche dopo una mini crisi. Che utilizzava il numero di sostenitori presenti allo stadio nel 2018 come termometro del successo. 

C'era una volta una proprietà che faceva discorsi altisonanti, promesse iperboliche solo parzialmente mantenute per impedimenti veri o artefatti di cui forse un giorno conosceremo i motivi.

C'era una volta l'ambizione altissima di un allenatore che incontrava la grandeur di Suning e del potentato che cercava di diventare nel mondo del calcio. 

C'era un tempo in cui vivere di rendita diventava improvvisamente fuori moda, nella stessa misura in cui appariva anacronistico il fatto di accontentarsi del minimo sindacale. Ecco, quel tempo è diventato attualissimo nel 2018, l'anno in cui sarebbe fatale sperperare il credito (non economico, ma di aspettative) accumulato faticosamente a metà del guado.

C'è un mese che va giocato sul campo e in sede di mercato per non far allontanare l'obiettivo Champions. Per non ripetere per il sesto anno di fila 'C'era una volta l'Inter'.

Sezione: Editoriale / Data: Gio 04 gennaio 2018 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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