Lunga intervista sul Corriere dello Sport a Luciano Spalletti, che spiega sé stesso e soprattutto il suo calcio.
 
Luciano, un giorno De Rossi disse che sei l’allenatore che l’ha segnato di più e il migliore. Aggiunse che per motivi diversi anche Luis Enrique e Conte l’hanno segnato. Cosa significa quel «mi ha segnato»? 
"Tu non lo puoi capire". 
 
Beh, ti ringrazio sentitamente. 
"Perché è uno stile, un modo di parlare e ragionare. Per come ti sento e sento altri, penso non ti sia facile capire".  
 
Stai andando malissimo. 
"L’altro giorno mi hai detto che ti piacciono quelli che vincono. Ma così si perde l’essenza, sia la vittoria che la sconfitta sono lo stesso impostore. Perdere induce a riflettere, a ragionare sugli errori commessi per tentare di non ripeterli più. Vincere può distrarti dall’obiettivo, dalle cose che succedono durante il percorso. Le cose dell’anima, i sentimenti... Se il giorno dopo ti fermi alla vittoria non migliori, non cresci. Non è detto, poi, che, facendo le stesse cose, si possano ottenere identici risultati. Decisivo è il modo in cui riesci a relazionarti con i giocatori e i collaboratori, quanto sei in grado di renderli doppiamente forti e parte della stessa storia: uno più uno più uno al cubo insomma. Abbracci, sentimenti, solidarietà, capacità di coinvolgimento, tanto dipende da come si vivono i differenti momenti. Il calcio è semplice, ma non è semplice". 
 
Il teorico del calcio semplice è Massimiliano Allegri, ci ha titolato la biografia. 
"A volte il calcio assume i connotati di chi lo complica. Anche voi giornalisti avete delle responsabilità, talvolta per sufficienza. Mettiamo la costruzione…". 

… la maledetta benedetta costruzione dal basso. 
"Rende bene se rapportata con lo spogliatoio e con le caratteristiche dell’avversario". 
 
Ma comporta più rischi che vantaggi. 
"È che adesso faccio questo e non mi è consentito dal ruolo: ma ammetto di aver pensato di venire un paio di volte in tv a parlare di calcio". 
 
La costruzione dal basso non può, né deve, essere un dogma. 
"Io non ho dogmi di niente. Voglio essere pratico nella profondità: non conosco un solo modo di vivere, sono per le aperture e la conoscenza di più realtà e modi di pensare e fare. Da sempre considero Marcello Lippi una fonte di ispirazione: lo seguivo con attenzione, guardavo come si comportava, l’ho voluto incontrare per farmi spiegare il mondo azzurro nel profondo. Ma allo stesso tempo guardo a Sacchi come a un modello". 
 
Provo a chiarire il mio pensiero sul nuovo valore della vittoria. Oggi più che mai, in una fase del nostro calcio in cui le difficoltà economiche e le emergenze sono addirittura feroci, la vittoria assume un’importanza doppia. Non la si misura più sul piano sportivo, ma in milioni. La mia non è una resa, semplicemente mi adeguo. Sposo la praticità. 
"Io sono fortunato perché ho sempre ottenuto quello che meritavo. Poi, certo, c’è anche chi ha culo. Talvolta il risultato dipende dalle capacità non solo tecniche di un calciatore, dal singolo episodio. A Napoli ci siamo sempre presi quello che avevamo costruito e meritato".  

Il culo sistematico non esiste. Roba da fumetti, da Gastone di Disney. 
"Ma esiste il culo con la kappa. Domenica scorsa il Napoli avrebbe meritato di vincere e non ha vinto. Sono sfumature che ti fanno ripensare al comportamento tenuto". 
 
Poi me la spieghi. 
"Io non so allenare il cinismo. Allenare per me significa voler bene al calciatore, saperlo difendere, aggiungergli qualcosa. Esiste il calciatore timido che non riesce a esprimere totalmente il proprio potenziale e allora intervengo con il lavoro. Al Napoli ne avevo un paio. Ma adesso appoggia la penna". 
 
Agli ordini.  
(Fa i nomi). "Con l’esercizio cerco di portare il timido nella condizione ideale per alzare il livello del rendimento. Non riesco a fare niente in superficie. Il primo anno a Napoli vivevo in albergo, magnifico, mi portavano la colazione in camera. Poi ho piazzato il lettino nell’ufficio. Per non perdere un solo secondo, anche il più piccolo particolare, mi risparmiavo la mezz’ora di auto da Napoli a Castel Volturno". 
 
Alla lunga risulti più usurato o usurante? 
(Fa una lunga pausa). "Lavoro sodo. Sono usurante due volte per me stesso. Chi motiva se stesso fa capire chi è… Chi sa motivare gli altri fa capire dove vuole andare e arrivare". 
 
Hai mai subìto una decisione? 
"Ho sempre deciso per me stesso. Il mestiere vuol dire 365 giorni di grande lavoro. Dopo il primo anno i miei collaboratori mi dissero “ma cosa restiamo a fare? Hanno venduto tutti”. Erano partiti Mertens, Koulibaly, Ghoulam, Ospina, Insigne, Fabian Ruiz. Tanta qualità. Io volevo sentirmi l’allenatore del Napoli e si è allenatori di una squadra soltanto se si fa qualcosa di effettivamente importante. Quando incontri De Laurentiis la prima cosa che ti dice è “secondi siamo già arrivati e dobbiamo stare sempre in Champions”. Messaggio chiaro e diretto. Così sono ripartito per ottenere quella cosa là, è successo, sarei potuto restare ancora, il grafico prestazionale l’avevamo portato al livello più alto". 
 
Per l’Europeo dobbiamo avere fiducia? 
"La fiducia deve corrispondere all’amore che si prova per la Nazionale. Più la si ama e più fiducia si ha. Non dobbiamo temere nessuno, mettiamocelo in testa come chiodo fisso. Siamo il mezzo per raggiungere la piena felicità. La nostra e quella di chi ci vuole bene". 

Sezione: Rassegna / Data: Mar 30 aprile 2024 alle 10:34 / Fonte: Corriere dello Sport
Autore: Alessandro Cavasinni
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