"Abbiamo parlato con Inter e Milan ma la struttura della Serie A è un disastro". Queste le parole di Amanda Staveley, personaggio chiave nella trattativa che ha condotto PIF ad acquisire il Newcastle. E così sembrano sfumate le possibilità che il fondo arabo acquisti l'Inter, come invece tanti continuano a raccontare con ottimismo.
Perché i club italiani attraggono investitori americani, più che arabi? Se lo domanda il Corriere dello Sport. "Occorre capire le diversità culturali e gli obiettivi che muovono il denaro - si legge -. L’origine dei capitali Usa è un’economia fortemente competitiva: motore della ricchezza è il mercato che, nel secolo scorso, ha selezionato la corporation come l’organizzazione più efficiente per la creazione di valore. La trasparenza del più vasto circuito finanziario al mondo consente ai capitali di scegliere, tra innumerevoli opportunità di impiego, la combinazione ottimale di rischio e rendimento. La cultura dell’investimento è dominata dai ritorni di breve termine perché il capitale è una risorsa scarsa, ha un costo e va dunque remunerato. Nel mondo arabo, fonte della ricchezza è l’estrazione di una risorsa naturale i cui proventi si concentrano nelle mani di pochi appartenenti a classi dirigenti familistiche e rigidamente bloccate. Alcuni stati sovrani hanno accumulato ricchezze inestimabili, da reimpiegare nell’economia internazionale, mancando un sistema produttivo interno capace di generare opportunità. Il costo del capitale è quindi bassissimo, la concorrenza interna inesistente. L’orizzonte è il lunghissimo periodo: occorre che la prosperità si preservi anche quando le risorse naturali saranno esaurite e il calcio è pur sempre una grande passione, diffusa su scala globale e destinata a durare. Gli americani scelgono club italiani perché attratti dalla dimensione contenuta dell’investimento: un medio club di Serie A vale poche decine di milioni mentre ne sono occorsi 400 al PIF per rilevare il Newcastle, oggi ultimo in Premier e basato in una delle città meno glamour del Regno Unito. Gli americani credono nella capacità di prendere un’azienda e ristrutturarla, cambiandone l’organizzazione, mentre gli arabi tendono a vedere stabili gli equilibri di mercato perché provengono da sistemi economici a bassa mobilità. In un investimento cercano soprattutto la tenuta del valore nel tempo, laddove gli americani mirano a risultati economici positivi, da monetizzare rapidamente perché il tempo ha un costo. Non ultimo, gli arabi hanno forti restrizioni geopolitiche all’ingresso in Europa e Usa ma un’affinità col Regno Unito, di cui apprezzano l’apertura e la facilità del business. Non a caso, Londra è casa di capitali mediorientali mentre l’Italia, con le sue vischiosità e il peso eccessivo delle relazioni, presenta troppe barriere all’entrata. Non è un male aprirsi a investitori trasparenti e produttivi, piuttosto che a fondi di stati sovrani, ma la Serie A deve lavorare sulla capacità (anche politica) di fare sistema: facilitare lo sviluppo delle infrastrutture e veicolare un prodotto trasparente, attraente e vendibile. Altrimenti i capitali prenderanno altre strade".
Perché i club italiani attraggono investitori americani, più che arabi? Se lo domanda il Corriere dello Sport. "Occorre capire le diversità culturali e gli obiettivi che muovono il denaro - si legge -. L’origine dei capitali Usa è un’economia fortemente competitiva: motore della ricchezza è il mercato che, nel secolo scorso, ha selezionato la corporation come l’organizzazione più efficiente per la creazione di valore. La trasparenza del più vasto circuito finanziario al mondo consente ai capitali di scegliere, tra innumerevoli opportunità di impiego, la combinazione ottimale di rischio e rendimento. La cultura dell’investimento è dominata dai ritorni di breve termine perché il capitale è una risorsa scarsa, ha un costo e va dunque remunerato. Nel mondo arabo, fonte della ricchezza è l’estrazione di una risorsa naturale i cui proventi si concentrano nelle mani di pochi appartenenti a classi dirigenti familistiche e rigidamente bloccate. Alcuni stati sovrani hanno accumulato ricchezze inestimabili, da reimpiegare nell’economia internazionale, mancando un sistema produttivo interno capace di generare opportunità. Il costo del capitale è quindi bassissimo, la concorrenza interna inesistente. L’orizzonte è il lunghissimo periodo: occorre che la prosperità si preservi anche quando le risorse naturali saranno esaurite e il calcio è pur sempre una grande passione, diffusa su scala globale e destinata a durare. Gli americani scelgono club italiani perché attratti dalla dimensione contenuta dell’investimento: un medio club di Serie A vale poche decine di milioni mentre ne sono occorsi 400 al PIF per rilevare il Newcastle, oggi ultimo in Premier e basato in una delle città meno glamour del Regno Unito. Gli americani credono nella capacità di prendere un’azienda e ristrutturarla, cambiandone l’organizzazione, mentre gli arabi tendono a vedere stabili gli equilibri di mercato perché provengono da sistemi economici a bassa mobilità. In un investimento cercano soprattutto la tenuta del valore nel tempo, laddove gli americani mirano a risultati economici positivi, da monetizzare rapidamente perché il tempo ha un costo. Non ultimo, gli arabi hanno forti restrizioni geopolitiche all’ingresso in Europa e Usa ma un’affinità col Regno Unito, di cui apprezzano l’apertura e la facilità del business. Non a caso, Londra è casa di capitali mediorientali mentre l’Italia, con le sue vischiosità e il peso eccessivo delle relazioni, presenta troppe barriere all’entrata. Non è un male aprirsi a investitori trasparenti e produttivi, piuttosto che a fondi di stati sovrani, ma la Serie A deve lavorare sulla capacità (anche politica) di fare sistema: facilitare lo sviluppo delle infrastrutture e veicolare un prodotto trasparente, attraente e vendibile. Altrimenti i capitali prenderanno altre strade".
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