Francesco Zampa è un maresciallo dei Cara­binieri in servizio a Perugia. Tifa per la Ju­ventus (particolare importante) da quando è nato, 46 anni fa, e ha quat­tro figli. Zampa ha parlato di Calciopoli, nell'indagine condotta dall’allora ma­resciallo Vincenzo Auricchio e che ha portato al­le sentenze sportive del 2006 prima e al processo in corso a Napoli poi. Un’indagine che Zampa ha analizzato arrivando all’elo­quente sintesi del titolo: «L’elogio dell’inconsi­stenza». Ma gli attacchi all'Inter non mancano. Ecco la sua analisi, ovviamente di parte, ripresa da Tuttosport.

Signor Zampa, lei è un carabiniere?

«Sì, sono un maresciallo in grado apicale in ser­vizio a Perugia, dove mi occupo di varie attività, fra le quali ricevere il pubblico, raccogliere le de­nunce, svolgere gli interrogatori, redigere rap­porti ».

Ed è anche tifoso della Juventus?

«Da quando sono nato. E ci tengo a sottolinear­lo, perché è proprio come juventino che ho scrit­to il libro su Calciopoli, da privato cittadino non da carabiniere, anche se logicamente non nascon­do il fatto di esserlo e di avere quel tipo di forma­zione ».

Perché un libro su Calciopoli e perché a fumetti?

«Tante cose mi hanno spinto a scrivere e dise­gnare, ma una delle molle più importanti sono stati i miei due figli maschi, di 10 e 13 anni, tifo­si della Juventus come me. Volevo raccontare lo­ro questa storia in modo che capissero che esiste­va anche un’altra verità oltre a quella racconta­ta da certi media. E soprattutto perché imparas­sero la lezione che ho imparato io: sempre pen­sare con la propria testa e non credere a prescin­dere a quello che ci viene venduto senza prove a confermarlo».

Già, le prove. Sono una delle chiavi del suo libro nel quale lei va alla disperata ricerca di qualcosa di concreto che incastri Luciano Moggi e la Juventus.

«Nel 2006, quando uscirono le prime intercetta­zioni, io credetti alla colpevolezza della Juven­tus. Tutto era confezionato in modo impeccabile e mi dicevo: se hanno fatto delle indagini e sono arrivati a questa conclusione…»

E poi cos’è successo?

«Leggevo titoli molto forti sotto ai quali c’erano però ar­ticoli poco consistenti e pove­ri di circostanze precise per configurare l’illecito sportivo. Qualcosa non mi tornava. Poi uscì il fascicolo dell’E­spresso, “Il libro nero del cal­cio”, sostanzialmente una fo­tocopia del rapporto dei Ca­rabinieri che avevano svolto le indagini. Pensai che lì, nel lavoro investigativo dei miei colleghi, ci sarebbero state le risposte alle mie domande».

Le trovò?

«No. Quel rapporto parte in modo anomalo, ovvero inizia con le conclusioni che do­vrebbero stare alla fine. Si usano parole gravi, si descri­ve una situazione molto preoccupante, ma non si en­tra mai nel merito dei fatti. E’ un po’ come se si scrivesse: “C’è un grande giro di droga, la droga la controlla tutta quel tizio, che è sicuramente uno spacciatore. Bene, ma quanta droga? Dove si trova questa droga? A chi è stata venduta? Come? Insomma, per tornare a parlare di Cal­ciopoli: dov’è la famigerata valigetta con i soldi o qualco­sa di simile? In un’indagine, dice pure Conan Doyle, biso­gna prima elencare i fatti, poi trarre le conclusioni. Qui la prima cosa è stata quella di trarre le conclusioni senza tante prove. Mi fa venire in mente una storia decisamen­te più drammatica ma assai simile per le dinamiche».

Quale?

«Il dramma dei due bimbi morti a Gravina, in Puglia. Venne subito accusato il pa­dre che era un emarginato e violento, l’identikit perfetto del colpevole sul quale si sca­gliò l’opionione pubblica e quella dei media. Alla fine venne arrestato e rischiava di essere condannato. Lo salvò il ritrovamento dei cor­pi dei due bambini nella ci­sterna che lo scagionò. Ora, al di là dell’aspetto umano, delle similitudini ci sono: Moggi era un colpevole per­fetto per l’opinione pubblica che da anni indicava la Ju­ventus come “squadra che rubava sempre”…».

Lei parla di inesistenza di prove, ma con le telefonate intercettate come la mettia­mo?

«Attenzione, le intercettazio­ni devono essere un mezzo non una prova in sé. Attra­verso le intercettazioni io posso, sempre per rimanere nell’esempio di un traffican­te di droga, scoprire dove e come effettua il suo commer­cio. Nel caso di Moggi biso­gnerebbe capire quando e co­me ha costretto un arbitro a favorire la Juventus. E di­venta difficile dimostrarlo senza una telefonata una fra Moggi e gli arbitri. Così co­me è difficile dimostrare che gli arbitri che avrebbero fat­to parte della cupola erano asserviti alla Juventus, visto che la media punti dei bian­coneri con loro è inferiore a quella con gli altri direttori di gara. Ribadisco: dov’è la droga? Per condannare ser­vono le prove e per me di pro­ve con rilevanza penale non ce ne sono, dal punto di vista sportivo forse sì, ma quella è un’altra storia».

Parliamone.

«Per me in quelle telefonate non c’è mai un illecito sporti­vo, semmai un comporta­mento sleale, un atteggia­mento da censurare e da pu­nire con una squalifica, un’ammenda o dei punti di penalizzazione, non con la serie B e la revoca di due scu­detti ».

Cosa pensa delle telefona­te, emerse sei mesi fa a Na­poli e che coinvolgono i di­rigenti dell’Inter?

«I fatti alla base di calciopoli possono essere ignorati solo per grettezza o malafede, scegliete voi da quale parte stare. Ho sempre sostenuto che le telefonate incriminate di Moggi sono state diffuse con malintenzionata sugge­stione. Dall’altra parte orec­chie predisposte erano ben liete di ascoltare conferme attese da decenni. Non im­porta se false o costruite: l’importante era sfogare odio e invidia atavici. Ora il desti­no comincia a restituire, il seme sta germinando anco­ra. Non c’è nulla in queste nuove telefonate di compro­mettente, come non c’era pri­ma: riascoltare per credere. Quelle telefonate sono molto simili a quelle della Juven­tus. Quindi, al di là del pro­blema della prescrizione: o mandano l’Inter in B o resti­tuiscono alla Juventus tutto quello che le hanno talto con tante scuse. Sono molto cu­rioso di vedere quello che de­ciderà la Federazione e mi stupisco dei tempi: è pazze­sco che siano passati 150 giorni senza che l’esposto di Andrea Agnelli abbia avuto una risposta».

Come ha accolto quell’espo­sto?

«Come ossigeno per la juven­tinità. Andrea Agnelli ha ri­portato entusiasmo e orgo­glio, si è ricollegato alla sto­ria bianconera dalla quale il club si era inspiegabilmente staccato. La mia bandiera, però, rimane nell’armadio».

In che senso scusi?

«Nel libro sono l’io narrante e appaio sempre con la maglia e la bandiera della Juve. Al­la fine però ripongo entram­be nell’armadio e rimango in canottiera. Tirerò fuori la maglia e la bandiera quando una sentenza mi darà una verità soddisfacente su Cal­ciopoli. La B non me la risar­cirà nessuno, ma la storia de­ve essere riscritta, anche nei suoi aspetti più assurdi».

Ce ne dica uno.

«A distanza di quattro anni trovo ancora inspiegabile che a decidere su Calciopoli ven­ne chiamato Guido Rossi, tifoso interista, già membro del Cda dell’Inter. Un po’ co­me se sui passaporti falsi avesse avuto lo stesso potere, chessò, un Franzo Grande Stevens, che pure lui è un fa­moso giurista e avvocato. Qualcuno avrebbe avuto da ridire, no?».

Un’ultima domanda: come andrà a finire secondo lei?

«Non lo so. Ripeto, sono mol­to curioso. Posso raccontare il finale onirico del mio libro che ha il tono dell’inchiesta fino alle ultime pagine, dove mi lascio un po’ andare e di­segno i due scudetti che tor­nano a casa da Gianni e Um­berto ».

Sezione: News / Data: Sab 09 ottobre 2010 alle 20:58
Autore: Fabrizio Romano
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