Tanti auguri Ruben Sosa, festoso artista uruguaiano dal dribbling scintillante e dal sontuoso piede sinistro. Attaccante rapido e sgusciante capace d’entusiasmare, in anni in cui la compagine nerazzurra viveva più di bassi che di alti e annoverava tra le proprie fila un numero di campioni certamente non elevatissimo, intere generazioni d’interisti: le più giovani, rimaste improvvisamente orfane della prodigiosa squadra-record del Trap, e quelle meno, che nel prelibato e maggiormente potente mancino del piccolo sudamericano scorgevano nostalgiche similitudini con il geniale Evaristo Beccalossi o, addirittura, con il supremo Mario Corso.
Strepitosi calci di punizione e giocate di gran classe, gol bellissimi sempre conditi da esultanze sfrenate quanto pittoresche, costante spina nel fianco delle difese avversarie nonostante un ginocchio ballerino che, assieme allo scellerato volere dell’allenatore Ottavio Bianchi, fu la principale causa del prematuro addio alla Beneamata, dove Sosa giunse in sordina nell’estate 1992 reduce da quattro positive stagioni con la maglia della Lazio. Una seconda punta dal fisico tracagnotto (1,75 metri per settantuno chili) ma dal talento indiscutibile nata a Montevideo il 25 aprile di quarantasei anni fa e rigogliosamente sbocciata in tutto il suo splendore sotto le sapienti cure del milanesissimo mister Osvaldo Bagnoli, spirito artigiano della Bovisa che, per merito specialmente delle venti marcature realizzate dal bomber cresciuto nel Danubio, nel torneo 1992/’93 arrivò a sfiorare un pazzesco scudetto in rimonta: impresa che non riuscì per un soffio all’allora tecnico nerazzurro che del veloce ed esplosivo Ruben, in patria ancora oggi chiamato “El Principito”, amava scherzosamente dire “di tattica el capìss niènt, ma se continua a far gol a me sta benissimo”.
Per Sosa, dunque, nessuno scudetto nelle tre annate trascorse all’ombra del Duomo, ma la conquista di un trofeo d’importanza forse superiore: l’affetto, la gratitudine e l’onore delle armi mostratogli da un popolo storicamente esigente tipo quello “bauscia”, che per la sua gara di chiusura col club ambrosiano – un Inter-Padova che chi c’era ricorderà soprattutto per la confusa gioia scaturita sugli spalti alla rete di Marco Delvecchio che, giunta all’ultimo minuto dell’ultima giornata, consegnò al Biscione una faticosa qualificazione in coppa Uefa per la stagione successiva – tappezzò l’aria ormai estiva di San Siro con cori e striscioni a favore dell’intoccabilità del gioviale puntero uruguaiano. Dalla riapertura delle frontiere datata 1980, sicuramente uno dei migliori dieci attaccanti stranieri sbarcati sinora sulla sponda incensurata del Naviglio: i chirurgici missili che partivano dal suo sinistro erano sovente in grado di vincere le partite da solo, il carattere perennemente esuberante era invece l’aiuto di cui spesso la squadra necessitava per superare le situazioni più buie, come ad esempio furono le drammatiche settimane conclusive del campionato 1993/’94, occasione nella quale la disavvezza Inter si trovò paurosamente alle prese con una lotta per non retrocedere che strideva però incredibilmente con l’esaltante cammino europeo sviluppato da capitan Bergomi e compagni in quell’inspiegabile anno iniziato con Bagnoli e terminato, alla stregua attuale, con in panchina l’allenatore della Primavera. Anche comunque agli ordini di mister Giampiero Marini, già intelligente e generoso motore del centrocampo nerazzurro dal 1975 al 1986, Ruben si confermò imprescindibile elemento della compagine meneghina e divenne quindi uno dei protagonisti dell’indimenticabile cavalcata continentale culminata nella sofferta doppia finale contro il Salisburgo, arcigna formazione austriaca battuta con identico punteggio (1-0) sia a Vienna che nella bolgia dantesca disegnata dal Meazza nella caotica e pulsante sfida di ritorno.
Folle ed emozionante match che, oltre a suggellare il conseguimento della seconda coppa Uefa nella storia della Beneamata, rappresentò il canto del cigno della chiaroscura conduzione del presidente Ernesto Pellegrini, durata undici stagioni e realizzante quattro trofei: cifre che, rilette adesso, potrebbero tranquillamente raffigurare uno dei motivi per mettere in evidente imbarazzo quell’irriconoscente fetta di sostenitori nerazzurri che di recente ha tentato vane contestazioni verso l’operato di Massimo Moratti. Prelevandolo in scadenza di contratto dalla Lazio, in ogni caso Pellegrini fece di Ruben Sosa uno dei colpi di mercato maggiormente illuminati della propria gestione: cinquanta gol in centoquattro presenze totali ancora oggi indelebili nella mente di quei tifosi del Biscione che, in un triennio dove essere interisti non significava certo collezionare trionfi a ripetizione come accaduto negli ultimi anni, hanno sognato grazie alle prodezze del “Principito” prossimo a spegnere quarantasei candeline.
Pierluigi Avanzi
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