“Non sono il signore di niente”. Così debutta José Mourinho nella lunga intervista concessa a FourFourTwo e riportata nel primo numero dell’edizione italiana della celebre rivista, della quale vi abbiamo fornito ieri in anteprima un’anticipazione. José Mourinho non si sente il signore di niente, nonostante campionati vinti in quattro nazioni diverse e due Champions League in bacheca; e nemmeno vuole sentirsi etichettato come un allenatore manager piuttosto che un tattico: “Devi avere un po’ di tutto per essere un grande allenatore. Se sei un grande allenatore, ma non riesci a creare empatia coi tuoi giocatori, non sei in grado di fare niente. Se non sai allenare ma hai un metodo chiaro per aiutare i giocatori a migliorare, anche in quel caso non combini nulla. Puoi circondarti di assistenti con esperienza e conoscenza, ma se non sai gestirli e controllarli sono guai. Un top manager deve avere un po’ di tutto, come i calciatori anche loro devono avere un dono, qualcosa che sia innato, ma io non cerco di scoprire quale sia il mio”.

Zlatan Ibrahimovic ha ricordato nella sua autobiografia di avere ricevuto un sms da Mourinho nell’estate del 2008, prima di incrociarsi all’Inter. “E’ una cosa che faccio con tutti – spiega – . Vado in un club e magari firmo a maggio, ma non incontro nessuno fino a giugno. Per due mesi sono il loro allenatore ma non li conosco ancora, perciò devo provare a farlo. Devo cominciare a comunicare con loro, ecco perché ho fatto con tutti la stessa cosa che ho fatto con Zlatan ad Euro 2008 prima di arrivare all’Inter. Il contatto iniziale viene stabilito prima di incontrarli di persona e cominciare a lavorare con loro. E’ una cosa naturale”. Rapporti coi giocatori saldissimi, uno dei punti di forza, forse il principale di Mou: “Qualcuno magari questo feeling non lo sente, ma la stragrande maggioranza dei giocatori sì, con loro costruisco un rapporto che rimane per sempre. Loro mi sono leali tanto quanto lo sono io con loro. Questo è un rapporto che costruisco con l’onestà; qualche volta esserlo significa non dire loro quello che vogliono sentirsi dire o quello che si aspettano di sentirsi dire. Io ho avuto buone esperienze anche con giocatori che non avevano successo con me, il rapporto era però fantastico perché si è basato su onestà e comunicazione. Con un’alta percentuale di giocatori coi quali ho lavorato c’era un legame rimasto nel tempo”.

Dopo il Triplete con l’Inter, la promessa di un ritorno fatta a Massimo Moratti; dopodiché, un’esperienza col Real Madrid tormentata nonostante il ritorno alla vittoria del campionato, con Florentino Perez che lo giubilò in quanto l’ultima stagione non fu giudicata sufficiente “perché in lui avevamo un livello di aspettative altissimo”. Ma lui si difende così: “Io sono il miglior allenatore della storia del Real Madrid, il più grande club del mondo. Ho fatto 100 punti con 121 gol, campioni contro il miglior Barcellona che si sia mai visto. Io sono l’unico, la gente può guardare alla mia storia come le pare, ma io preferisco farlo in un altro modo. Ho vinto il Campionato dei Record, questo è il mio posto nella storia del Real”. Quest’estate, si è invece concretizzato il ritorno al Chelsea e in Premier League: “Sapevo che sarei tornato in Inghilterra. Al Chelsea? Non si sa mai, è sempre stata una speranza. E’ chiaro che la situazione ideale, come in questo caso, è esaudire tutti i desideri: essere nel Paese dove ti piace lavorare e vivere, in un club con cui hai un’intesa profonda. Ma da professionista devi essere pronto a tutto, dipende sempre dall’incarico che ti si presenta. E nel momento in cui volevo tornare in Inghilterra, la panchina del Chelsea era disponibile. E’ una bella coincidenza, ma resta una coincidenza. La mia casa resta il Portogallo, però abbiamo deciso che Londra era un ottimo posto anche per i bambini. Qui la gente ti permette di vivere, capiscono il lavoro del calcio”.

Altro punto a suo sfavore, il fatto di risplendere nei propri club con grande intensità, ma per breve tempo. La difesa dello Special One è questa: “Il profilo del mio lavoro è cambiato, ora sono nella posizione di dire quale paese mi piace di più, quale campionato. E voglio preparare il futuro di questo club con una squadra molto giovane. E’ buffo, poi, che il Chelsea degli ultimi otto anni è rimasto quasi lo stesso che avevo io. Il Real Madrid, tolto Özil e messo Bale, è lo stesso. L’Inter è rimasta la stessa per due anni dopo di me finché non hanno deciso di vendere i giocatori con gli ingaggi più alti. Ci sono storie su di me che mi piacerebbe sapere da dove saltano fuori. Come il discorso dell’eccessivo gioco in difesa. Il mio Real Madrid era difensivo? Con 121 gol fatti? Il mio Chelsea ha ancora il record di punti della Premier League. Qualche volta ripetere una bugia convince gli stupidi a credere che sia vera. Le mie squadre giocano all’attacco, sono costruite per vincere, normalmente uno vince giocando un calcio dominante; devi essere dominante, perciò è questo ciò che le mie squadre devono fare”.

In conclusione, Mourinho spiega in maniera dettagliata i suoi prossimi obiettivi: “Ho fatto tutto quello che volevo, ho vinto le competizioni che volevo vincere, sono stato in Paesi che ero curioso di conoscere. Sono ancora ambizioso, ma in maniera diversa: non ho nuovi campionati da conquistare, per questo ora voglio ripetere il passato.  Ognuno dei campionati dove ho lavorato è diverso dagli altri; la cultura del calcio è diversa, media e tifosi sono diversi. Uno non perde la propria metodologia ma impara ad adattarla a situazioni differenti. Questo aiuta a crescere. L’esperienza è importante: un conto è giocare in Premier, un altro in Liga, un altro gareggiare per lo scudetto. Ogni cosa è diversa, la mentalità delle altre squadre, l’approccio tattico. E devi adattarti. Quando ti sposti da un Paese all’altro, è una storia completamente diversa: devi analizzare gli avversari, la mentalità dei giocatori. Non puoi sempre giocare nel modo in cui ti piace, ma col migliore sistema per i tuoi giocatori e la tua squadra, in modo da provare a vincere grandi sfide. Si tratta di una grande esperienza. Poi, per quanto mi riguarda, quando realizzi di avere il pieno controllo puoi anche andare via. Per questo ho lasciato l’Italia dopo due anni e la Spagna dopo tre”.

Parole da vincente, come lo è sempre stato José Mourinho. Con un ultimo pensiero dedicato alla propria famiglia: “E’ la sola cosa più importante del calcio. I miei ragazzi hanno un’età che non rende le cose facili. Arriva un momento nel quale ne hanno avuto abbastanza. Hanno bisogno di stabilità e io devo dargliela attraverso le mie scelte professionali”. 

Sezione: In Primo Piano / Data: Mar 10 dicembre 2013 alle 11:27
Autore: Christian Liotta
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