E dire che Roberto Mancini l’aveva fatto intuire fin da subito: “Kovacic? Anche David Silva quando sono arrivato a Manchester era considerato un centrocampista, ora è uno dei migliori esterni d’Europa e sfrutta le sue qualità per fare decine di assist (miglior assistman della Premier League da quando è arrivato in Inghilterra, ndr). Intravedo per Mateo lo stesso tipo di strada”. Insomma, il Mancio - non appena sedutosi per la seconda volta sulla panchina dell’Inter - ha iniziato il restyling della squadra seguendo i suoi dettami tattici, incurante del lavoro svolto finora sui singoli, primo fra tutti l'indottrinamento tattico del suddetto Kovacic: largo quindi alla fantasia in attacco, mentre a centrocampo avrebbe dovuto regnare la forza fisica, per affermare il proprio predominio in una zona nevralgica del terreno di gioco. Basta guardare le formazioni tipo con cui il tecnico di Jesi ha vinto in giro per l’Europa: negli anni degli Scudetti a Milano, nella zona mediana si alternavano profili come Patrick Vieira, Javier Zanetti, Esteban Cambiasso e Dejan Stankovic sulla trequarti. In panchina, i vari Cesar, Dacourt, Maniche… Insomma, giocatori che sapevano abbinare i piedi buoni ad una fisicità mostruosa. Andando a spulciare ancora nelle rose del Mancio, al City si trova una vera e propria diga, nella formazione Campione d’Inghilterra 2011/12: Yaya Touré e Gareth Barry, con dietro Nigel De Jong e James Milner. Tutti i brevilinei sono stati spostati in avanti: il sopracitato David Silva e Samir Nasri fanno compagnia a Sergio Aguero dietro a Edin Dzeko. Dulcis in fundo, il Galatasaray con cui il Mancio ha vinto una Coppa di Turchia: diga centrale con Felipe Melo ed Ebouè, con Inan e Rieira a completare la mediana tipo. Infine, il Mancio-bis inizia con il derby e con un centrocampo muscolare: Guarin, Kuzmanovic e Obi. Il 10 è subito spostato ad ala, con Palacio ed Icardi in attacco. Nella partita successiva, la Muscol-Inter replica: centrocampo a tre, con M’Vila, Kuzmanovic e Medel.
Insomma, è stato subito chiaro che - dopo l’anno e mezzo di apprendistato da mezzala sotto Walter Mazzarri - Mateo Kovacic doveva mettersi di nuovo in cerca di una posizione in campo dove far esplodere il proprio talento, a tratti strabordante ma spesso sbianchito da incomprensioni tattiche e una gagliardia che - sul campo - ha stentato a mostrarsi. Insomma, l’Inter era a caccia di se stessa e il giovane di Linz con essa, schiacciato dal peso della pressione di dover tornare subito vincenti. Forse la verità è che non si è mai capito fino in fondo il talento di Kovacic. La sua capacità di mettere l’uomo davanti alla porta, ma al tempo stesso la sua necessità di non dover toccare troppe volte il pallone, ergo il bisogno di avere vicino giocatori capaci di giocare a due tocchi e non solo dei mestieranti del pallone o, ancora, centrocampisti come Hernanes - accanto a lui nel 3-5-2 di WM - un altro amante del tocco spropositatamente del pallone. Senza dimenticare le lacune difensive che il talentino si portava dietro dai tempi della Dinamo Zagabria, dove gli bastavano le sue capacità palla al piede per spadroneggiare sui campi croati. Ma nel calcio, soprattutto in una squadra senza punti fermi qual è stata l’Inter delle ultime quattro stagioni, non si può sopravvivere di solo talento. Sono richiesti delle componenti caratteriali, fisiche e tattiche che per forza di cose un ragazzo di vent’anni non può avere.
Kovacic è una creatura rara nel panorama calcistico europeo, probabilmente da affiancare ad un regista dai piedi buoni che lo sapesse lanciare negli spazi per lasciarlo giocare nello stretto così da sfruttare le proprie skills e illuminare le più sconosciute vie per l’assist al bacio (chiedere a Mauro Icardi per informazioni, i cui movimenti erano oro per il croato). All’Inter, come spesso capita, è stato però sopraffatto dall’ansia e dall’impazienza dei tifosi e degli addetti dei lavori che a vent’anni volevano trovarsi in casa il prototipo del centrocampista perfetto. Invece in tanti hanno criticato il dieci per le proprie lacune, senza soffermarsi sui piccoli (e lenti, va detto) miglioramenti che partita dopo partita mostrava. Dai tempi di Stramaccioni, quand'era regista, fino all'ultima preseason nerazzurra, incominciata in mezzo a Brozovic e Kondogbia e terminata con una decisione drastica, quella della cessione, per aiutare Piero Ausilio a regalare a Mancini gli esterni di cui si ha bisogno per tornare grandi.
35 milioni sono tanti, tantissimi. Soprattutto per un giocatore che - talento a parte - l’anno scorso non è stato per larghi tratti titolare in una formazione arrivata ottava in campionato. In barba alla programmazione, è stato giusto vendere Mateo Kovacic per potenziare una squadra e sbrigarsi d’un inghippo tattico che per una serie di fattori a Milano - e nel calcio italiano - non sarebbe mai sbocciato. Il football a lui congeniale è quello dagli spazi aperti, non delle linee difensive serrate e dei tatticismi estremi. A Madrid quando giocherà lo farà in mezzo ai campioni, in una squadra che si difende poco perché abituata a schiacciare gli avversari nella propria area di rigore. Messo in queste condizioni, Kovacic potrà maturare e mostrare tutto il suo potenziale offensivo. In Italia, però, è tutt’un’altra storia.
Autore: Marco Lo Prato / Twitter: @marcoloprato
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