Agosto e maggio distano appena otto mesi sul calendario, uno periodo che diventa un'era geologica se misurato con l'orologio che scandisce il tempo del calcio. Quando gli ombrelloni sono ancora aperti assieme agli illusori sogni di mercato, arrivano puntuali i pareri di esperti o sedicenti tali che fanno le carte al campionato scrivendo i loro pronostici sulla sabbia. Un giochino che, vista la natura sfuggente di torneo che conta trentotto giornate, non vale la candela che si spegne già sotto le prime piogge autunnali. E' d'estate che si costruiscono le aspettative massime attorno a una squadra, ed è verso l'estate successiva che le stesse si scontrano con la realtà. Quello che succede in mezzo alle due estremità di una storia che nel mentre viene scritta da un giudice inflessibile quale è il campo di gioco, per quanto appassionante, è indefinito e dunque meno affascinante di una promessa o di una sentenza. Insomma, per i teorici del senno del poi è più comodo nutrire speranze, anche false, per uno scenario che potrebbe verificarsi per la propria squadra rispetto ad analizzare lucidamente le ambizioni della stessa in rapporto alla prova dei fatti. O, peggio ancora, commentare solo a bocce ferme un risultato maturato nel corso di una stagione, con la fastidiosa presunzione di stare sempre dalla parte della ragione.

Di questi esemplari ce ne sono a milioni in giro per l'Italia, e quest'anno curiosamente vestono colori di quasi tutte le squadre che popolano la massima competizione nazionale. 'Colpa' di un'annata che neanche nelle sue 'premesse di carta' ha potuto prospettare un colpo di Stato: tutti, dal primo degli analisti al più distratto dei tifosi, erano concordi nel definire la lotta allo titolo già chiusa ancora prima di essere iniziata. Un danno per lo spettacolo, per l'imprevedibilità – che da qualche settimana si poggia pericolante su una corsa Champions agonica – ma anche per la Juve e le sue inseguitrici a distanza. Lo scudotto bianconero, infatti, è stato forse quello meno festeggiato della storia della Serie A: in buona parte, sul clima che si respirava allo Stadium lo scorso 20 aprile, ha pesato certamente l'eliminazione bruciante dalla Champions League subita per mano dell'Ajax, ma la celebrazione in tono minore del party del primo tricolore vinto con Cristiano Ronaldo è da ricercare nella natura scontata del successo. L'attesa del piacere è stata annullata praticamente sul nascere, a tal punto che la Vecchia Signora – per meriti suoi e demeriti delle avversarie – ha potuto scegliersi la giornata in cui celebrare la matematica certezza della nuova laurea di campione d'Italia. L'ennesimo colpo affondato dagli europeisti del calcio che caldeggiano la nuova Champions League ai difensori dello status quo schierati a tutela dei campionati nazionali all'interno dei quali vige ormai da anni la dittatura (come la Juve, esercitano il loro potere assoluto tra i confini nazionali anche Psg, Bayern Monaco e Barcellona).

Senza addentrarsi nei casi specifici a livello territoriale, tema che meriterebbe uno spazio di approfondimento a parte, è evidente che 'il caso italiano' sia differente da tutti gli altri citati: lo dicono i numeri dato che i bianconeri – che in media hanno vinto praticamente un campionato su tre da quando esistono – hanno aperto una striscia vincente senza precedenti nel nostro calcio. Sfruttando un vuoto di potere creato proprio da quel Massimiliano Allegri che qualche anno più tardi si è ritrovato lo scettro tra le mani. Da allenatore del Milan, infatti, nel 2011-2012, Max cucì sul petto di Antonio Conte il primo scudetto della saga infinita, aprendo il solco che di lì a poco sarebbe diventata voragine anche per le scelte societarie inopinate di Inter e Milan. E in poco tempo, la narrazione di una competizione inesistente ai piani alti si è sforzata di trovare la squadra che potesse diventare l'antagonista di Chiellini e compagni: ruolo anti-storico per squadre come Roma e Napoli (che pure con Maurizio Sarri sfiorò l'impresa l'anno scorso) che sono diventate seconde e terze forze nazionali solo per colpa della rinuncia della milanesi. Quest'anno è andata anche peggio: spezzato il patto scudetto, gli azzurri hanno preferito tentare il volo pindarico europeo schiantandosi contro Liverpool e Arsenal anziché vivere di rimpianti da consumarsi in un albergo di Firenze guardando in tv la prestazione arbitrale inadeguata di Daniele Orsato. Risultato? Secondo posto in campionato con gap dalla vetta decisamente aumentato e più strada in Europa, senza però mai dare la sensazione di poter mettere in bacheca un trofeo. La Roma, invece, schiava delle plusvalenze, ha depauperato quasi tutto il suo patrimonio tecnico per sistemare il bilancio agli occhi di una Uefa che ormai sforna più patenti che trofei ed è ben al di sotto del rendimento dell'anno passato. Tanto che ha gli stessi punti del Milan che, al contrario dei capitolini, ha cercato e sta cercando un compromesso diverso dal gentleman agreement per scrivere un futuro diverso, contando anche sulla sponda del Tas. E, ovviamente, sull'eventuale cascata di soldi in caso di quarto posto, oggi distante tre punti dalla sorprendente Atalanta. Tre squadre accomunate da un senso di scontentezza latente o manifesta che deriva dall'impotenza dettata dal partire già battuti, in corsa solo per un piazzamento che è scontato o difficilissimo da raggiungere. Senza mezze misure. 

E, infine, c'è l'Inter: sotto settlement anche in questa stagione, con conseguenti riflessi sul turnover e sugli obiettivi generali, Luciano Spalletti è 'qualificato' alla prossima edizione della Champions da ventinove turni, praticamente dalla settima giornata. Con il picco massimo toccato quando si è posizionato al secondo posto, tra decima e undicesima, e quello minimo cadendo al quarto in coincidenza del sorpasso effimero del Milan, poi ricacciato indietro nel derby. Un percorso abbastanza aderente alle aspettative costruite durante la preseason, logico se si pensa ai tanti imprevisti capitati in mezzo al viaggio. Posto che fare raffronti con la scorsa stagione non porta da nessuna parte, e considerato che è ancor più inutile fare la conta dei punti di differenza tra questa annata e la scorsa, non si capisce da dove venga questo idea di inadeguatezza sopra il gradino più basso del podio. Forse è spiegabile con i risultati più recenti, che se non altro confermano che l'ultima sensazione è spesso l'unica che conta nel formulare i giudizi. Ma è un discorso che non ha senso fare, esattamente come le due proiezioni di un'Inter che non è mai esistita: l'anti-Juve di agosto e quella fuori dalla Champions a maggio. C'è, invece, una squadra che con il suo terzo posto in classifica 'disturba' perché non è collocabile vicino alla gloria o al fallimento. La stessa sorte che sta capitando a Luciano Spalletti, terzo incomodo tra Massimiliano Allegri e Antonio Conte: l'ex Roma è spettatore interessato del possibile valzer sulla panchina della Juve e sa che, a prescindere dalla bontà del suo lavoro, il suo destino è intrecciato al futuro dei due colleghi che hanno aperto il cerchio della storia recente del calcio italiano. Chi lo chiuderà tra Steven Zhang e Andrea Agnelli?

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Sezione: Editoriale / Data: Gio 09 maggio 2019 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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