Nei momenti delicati le vittorie, qualsiasi forma assumano e in qualunque modo vengano ottenute, hanno l'effetto di un balsamo lenitivo applicato su una ferita. Una sensazione di sollievo vitale e necessaria unita alla consapevolezza che la cicatrizzazione non è affatto definitiva e che per quello bisognerà attendere e soffrire ancora. L'Inter a Parma ha ripreso a respirare dopo un'apnea quasi agonizzante, un digiuno di gol e successi non infinito ma sufficiente a far scattare allarmi e accuse, in maniera abbastanza inevitabile. Ma soprattutto l'Inter versione 2019, oltre a non vincere e non segnare, si era mostrata lenta, impacciata, timida, quasi svogliata, spaventata, alienata. Anche e soprattutto considerando questi aspetti, al Tardini si è visto qualcosa di diverso.
Di diversa, intanto, c'è stata l'applicazione del 4-2-3-1: perché i moduli, in fin dei conti, sono relativi. A fare la differenza, davvero, è il modo di interpretarli e, ancor più, i movimenti degli uomini in campo. Joao Mario nel ruolo di esterno di destra (vista l'assenza di Politano e la scarsa vena di Candreva) ha dato vita, pur risultando tra i meno positivi in campo, a un modo differente di occupare le corsie.
Il portoghese tendeva per sua natura ad accentrarsi e questo ha reso per quasi tutta la partita atipici i ruoli che in genere gli esterni hanno avuto nell'Inter di Spalletti: sostanzialmente sono stati meno esterni del solito, o "finti esterni" se vogliamo, perché a parte qualche incursione, anche Perisic ha avuto la medesima tendenza ad andare spesso verso il centro e meno alla ricerca continua e ormai prevedibile (se non supportata da condizione fisica e convinzione nella giocata) della corsa sul fondo e del cross messo in area.
Questo ha anche avuto l'effetto di una calamita per i terzini, quasi obbligati e comunque invitati ad avanzare dagli spazi liberati davanti a loro: l'imprecisione di D'Ambrosio e Asamoah nelle giocate offensive e nel mettere in mezzo palloni buoni per chi riempie l'area rappresenta un altro discorso e un altro problema (visto anche, ad esempio, quando Spalletti a Torino ha provato a giocare col 3-5-2 utilizzandoli come esterni di centrocampo).
L'inter, quindi, ha sfondato principalmente per vie centrali. E questo lo si è visto anche nel primo tempo che pure non è stato il periodo migliore dei nerazzurri ma che comunque ha rappresentato un passo in avanti rispetto a quanto visto contro Sassuolo, Toro e Bologna. Cercando la giocata passando dal centro, si sono viste imbucate e giocate in verticale come non se ne vedevano da tempo e, nella ripresa, proprio ripartendo dal cuore del centrocampo, si sono viste persino un paio di triangolazioni che fino ad ora non sono proprio stato un marchio di fabbrica ma che, invece, dovrebbero diventarlo per risolvere l'atavico problema di creare superiorità, muovere la palla in velocità e superare le linee difensive compatte e ordinate degli avversari.
A rendere possibile tutto questo è stata la frizzantezza, la cattiveria, la voglia e la qualità del miglior Nainggolan in versione interista. Uno che, forse, ha avuto bisogno, al pari del resto della squadra, di ritrovarsi spalle al muro per avere una reazione. Di arrivare, se non a toccarlo, piuttosto vicino al fondo prima di iniziare a muovere gambe e braccia per ricominciare a nuotare e risalire.
Il belga ci ha messo corsa e movimenti. Ci ha messo la voglia di andare a pressare e inseguire gli avversari. Ci ha messo la qualità nelle giocate e nell'ultimo tocco, quello che all'Inter era mancato come l'aria. Ci ha messo il tiro (un paio nel primo tempo e uno murato da Sepe nella ripresa) e l'assistenza ai compagni (un'imbucata preziosa per Icardi che ha poi perso il tempo della giocata nel primo tempo e quella per Lautaro che ha portato al gol nella ripresa). Ci ha messo tutto quello che diversamente l'Inter non ha negli altri giocatori e che è poi anche il motivo per cui è stato fortemente voluto. E sul contributo che il Ninja ancora può dare a questa squadra, era stato scritto un editoriale neanche troppo tempo fa.
Un'Inter "verticale" e più "centrale", invece che alla ricerca quasi ossessiva del fondo e dei cross, ma anche un'Inter che (dopo aver sofferto e retto nei primi 45 minuti) nella ripresa si è scrollata di dosso qualche peso e ha messo all'angolo l'avversario lasciandocelo anche dopo aver trovato il vantaggio, un'Inter mossa da qualche sentimento di orgoglio o di rivincita, chi lo sa, ma che in ogni caso ha trovato la risposta giusta nel momento giusto.
La ferita, però, non è cicatrizzata e il balsamo lenitivo offre un sollievo momentaneo. Per guarire davvero servono altre cose. Tipo la continuità, tipo la normalità di certe prestazioni. Tipo un'Europa League che sta per iniziare e che, di nuovo, pone davanti a un dilemma che fin qui in stagione ha dato risposte negative: si gioca per vincere (e si considera fallimento il non riuscire a farlo) o si gioca per giocare e bravi lo stesso se il risultato non è positivo e la partita da dentro o fuori risulta timida e poco convincente. Perché quando le ferite continuano a sanguinare, tutto diventa lecito pur di tamponarle. Con tanto coraggio, determinazione e voglia di farcela anche in condizioni disperate. Tipo un Rambo stremato che per sopravvivere prende ago e filo e si cuce a freddo un braccio sanguinante. Ma basterebbe anche molto, molto, meno.
Autore: Giulia Bassi / Twitter: @giulay85
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