"Non posso addossarmi tanti anni di mancate vittorie, dove l'Inter si è più allontanata che avvicinata a vincere titoli". Il grido disperato di Luciano Spalletti prima della sciagurata sconfitta con il Bologna terzultimo in classifica è quello si fa largo tra i denti di chi ha imparato che nella Milano nerazzurra il presente è un tempo relativo schiacciato in mezzo alle ingombranti presenze del passato e del futuro. E' un lavoro da acchiappa fantasmi quello a cui è chiamato Lucio, costretto a catturare ora l'ombra di Antonio Conte che si allunga in zona Duomo, ora a silenziare le apparizioni divine di José Mourinho alla Pinetina. Il tutto mentre è impegnato a tenersi stretto il periodo della sua vita di allenatore della Beneamata che, dopo i tanti chilometri percorsi con addosso una tuta in questi 19 mesi, non è mai stato così in discussione.

Nulla di nuovo sul fronte post-Triplete: il tritacarne azionato dal mostro di Appiano Gentile ha mietuto molte vittime ben prima di un anno e sette mesi, e Spalletti può già definirsi un sopravvissuto in uno dei mestieri più logoranti del mondo. L'allenatore per definizione è un uomo solo, è a lui che si rimandano tutte le responsabilità di una sconfitta, molto spesso senza prendere in considerazione il contesto in cui queste si evidenziano. Il peggio arriva quando gli insuccessi arrivano in serie, concentrati in poche settimane, e magari determinano l'eliminazione da una Coppa mai così importante e mettono in pericolo una posizione in classifica prima solida. E' lì allora che l'ad di turno, il problem solver Beppe Marotta, ti tende le mano ma senza tenere il polso troppo rigido, perché 'Ci sono ancora dei traguardi che devono essere raggiunti, poi ognuno farà le sue considerazioni". Come a dire che sotto esame, come ogni santa volta, finisce sempre quel signore che siede in panchina, isolato da tutto e da tutti, mentre in campo scorre un film la cui sceneggiatura è stata modificata a sua insaputa. Se per i produttori della pellicola, che nella seconda parte della stagione comincia a tendere al flop, c'è la scusante del budget ridotto imposto dalle leggi del mercato e agli attori sono ammesse bizze riguardanti il compenso, al regista spetta il compito ingrato di passare sopra i problemi e tirare avanti per confezionare un prodotto credibile agli occhi del pubblico.

Ecco, d'ora in poi è la credibilità di tutta l'Inter ad essere gioco in questo lungo rush finale che porta alla fine di maggio. Ed è inutile invocare l'aspetto caratteriale e motivazionale della squadra, così come è fuori luogo parlare di cultura della vittoria come se fosse un concetto astratto a cui si può tendere grazie a chissà quale magia. L'Inter del 2019 è la sintesi di tutte le scelte fatte dalla proprietà, dalla decisione primordiale di affidare la panchina a Spalletti nel giugno 2017 a quelle più recenti di lavare in pubblico i panni sporchi dei casi Icardi e Perisic. Si è arrivati a questo punto che, contrariamente all'aria che si respira, non è una sentenza definitiva di condanna alla mediocrità, per una serie di concause che non si possono ridurre unicamente alla gestione di Spalletti. Che ha sì le sue colpe, ma non è altro che l'uomo di mezzo che deve accontentare i gusti del pubblico, esigente per natura, e allo stesso tempo raggiungere standard di qualità predefiniti a tavolino dalla società che lo stipendia.

Da qui nasce, dunque, lo scarto tra aspettativa e realtà: non è importante l'obiettivo che deve essere raggiunto, su quello sono tutti più o meno concordi, ma come viene raggiunto. E sulla forma dei risultati dell'ultimo mese è calata la mannaia sulle ambizioni di un gruppo di giocatori che non è mai stato in grado sin dal primo giorno in cui è stato assemblato di 'schiacciare tutti' come da proclama del giovane presidente Steven Zhang. La prospettiva ora va completamente ribaltata: l'Inter deve imparare a non farsi schiacciare dalle pressioni della critica, dagli avversari, dagli egoismi di chi dovrebbe trascinare il gruppo. Né farsi sopraffare dall'idea che basti premere il tasto 'out' sul nome di Luciano Spalletti per far tornare tutto come anni fa, quando schiacciare tutti era una prerogativa e non una frase a effetto pronunciata a una festa natalizia.

Sezione: Editoriale / Data: Gio 07 febbraio 2019 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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