Con che unità di misura si calcola un fallimento sportivo? Molto probabilmente in secondi, quelli che scandiscono il tempo intercorso tra il momento della dichiarazione di un obiettivo all'attimo in cui quello stesso scivola via lontano costringendoti ad esclamare 'ci proveremo l'anno prossimo'. E' un refrain che puntualmente sentiamo recitare dagli juventini verso aprile/maggio, al più a giugno se malauguratamente accedono alla finale per aggiornare il conto delle beffe subite nel corso della loro storia europea a un metro dal traguardo.

Un record poco invidiabile, aggiornato recentemente ben due volte, che fa da contraltare al dominio assoluto esercitato nelle ultime otto stagioni tra i confini italiani, laddove le contendenti – salvo la rarissima eccezione rappresentata l'anno scorso dal Napoli di Sarri – non possono essere definite nemmeno tali. In questo scenario post-apocalittico del calcio italiano, causato dalla lezione tecnico-tattica impartita dall'Ajax a Massimiliano Allegri, bisogna dividere equamente le colpe a metà tra la Vecchia Signora e le nobili decadute del nostro calcio, milanesi in primis. In tal senso, è controproducente bollare banalmente la Serie A come campionato 'poco allenante'. Troppo comodo e riduttivo spiegare la scientificità con cui i bianconeri salutano l'Europa che conta con la mancanza di competitività delle altre 19 squadre che popolano il torneo tricolore. Tra i tanti modi di vincere, la Juve – senza costrizioni – ha scelto il modello fondato esclusivamente su basi economiche: negli anni, Andrea Agnelli ha speso più degli altri colleghi presidente del belpaese per acquistare o strappare alla concorrenza giocatori di livello - diversi a parametro zero, alcuni a prezzo pieno – con l'intenzione unica di costruire una rosa di livello per tre fronti, fino a spingersi ad affrontare un'operazione 50/50 commerciale e tecnica prelevando Cristiano Ronaldo dai campioni d'Europa in carica del Real Madrid. L'affare del secolo, così definito da molti addetti ai lavori, è diventato due giorni fa il flop dell'anno. E non certo per colpa del portoghese, autore di sei gol in nove partite europee, ma per l'idea stessa che la Juve ha voluto veicolare dalla scorsa estate: se innesto il giocatore più decisivo della competizione continentale (con Messi) in una squadra che l'anno scorso è arrivata a un passo dalle semifinali, in automatico ho il passepartout per mettere le mani sulla Coppa. Niente di più sbagliato: il calcolo sportivo è presto fatto, quello finanziario sarà più chiaro nei mesi a venire.

Intanto, in mezzo alle regole rigide del Fair Play Finanziario e al dogma del fatturato, il calcio ci ricorda la regola più antica su cui si fonda: il gioco è superiore a qualsiasi calciatore. Un gesto tecnico pur impressionante come la rovesciata di CR7 dell'anno scorso può fare la differenza in una partita, le trame di dieci giocatori che suonano armonicamente leggendo lo stesso spartito ti accreditano tra gli Dei del football come creatura meritevole di gloria. Questo è l'insegnamento migliore che si deve trarre dalla notte europea di Torino, quella in cui anche Max Allegri ha dovuto ricredersi sul concetto di 'spettacolo'. Evidentemente, gli allenatori ragionieri in Europa non sono bene accetti, anzi: a una certa quota, dove la qualità è all'ennesima potenza, vengono premiate le squadre coraggiose, che attraverso le loro guide in panchina esprimono la propria filosofia. La magnifiche quattro - Ajax, Barcellona, Tottenham e Liverpool in semifinale - sono il manifesto più evidente di questa legge non scritta, che però non deve nascondere altre verità incontrovertibili: senza campioni non ha mai vinto nessuno, eccetto rarissime eccezioni. Di giocatori che risolvono alcune partite da soli se ne contano sulle dita di una mano, di calciatori funzionali a un certo pensiero calcistico ce n'è quanti se ne vuole (da costruire in casa o da prendere prima che il prezzo sia fuori mercato). In ogni caso ciò che è indispensabile è la cultura: senza questa ogni traguardo diventa una chimera in partenza.

Lo stesso discorso si deve estendere anche all'Inter, invitata solo per sei serate al gran gala del calcio europeo in questa stagione dopo tanti anni di assenza. Una delusione appena accennata, pure mitigata dai risultati degli ultimi due giorni, in confronto agli anni disastrosi in cui sono stati commessi peccati imperdonabili a ogni livello. Al contrario della Juve, l'Inter non ha mai avuto nemmeno un modello da seguire, anche complice i tre cambi di proprietà che hanno riscritto regole, comportamenti e valori dal giorno alla notte. L'agognata continuità è arrivata solo nell'ultimo anno e mezzo, con Suning e Luciano Spalletti al comando di società e squadra. Lo scorso dicembre, poi, è arrivato il trait-d'union tra i due mondi, Beppe Marotta, che per molti è l'uomo più indicato per replicare lo schema vincente che ha portato scudetti a pioggia sui bianconeri. Una specie di Cristiano Ronaldo nerazzurro, ma seduto dietro una scrivania. L'errore macroscopico sarebbe credere a questa definizione, pensando che il manager varesino sia una specie di facilitatore che accorcia il gap dai campioni d'Italia in poco tempo. Di sicuro c'è che da martedì 17 aprile è cominciata una nuova era per la Juve, l'anno 1 dopo l'all-in Cristiano Ronaldo. L'ennesimo anno senza Champions, l'ottavo di fila con uno scudetto cucito sul petto da festeggiare sabato contro la Fiorentina, quando dall'altra parte della barricata si brinderà alla Champions (intesa come qualificazione) per il secondo anno consecutivo.

Ecco, il fallimento si misura sul filo sottile delle ambizioni: Inter e Juve da troppo tempo viaggiano su frequenze diverse, sono imparagonabili. Questa è la vera sconfitta della Beneamata, che deve tornare a confrontarsi con i nemici sportivi di sempre imponendo un proprio modello, senza scopiazzarlo malamente. Da quel momento in poi frasi come 'il nostro scudetto è il terzo posto' non avranno più senso. E il sussurrare all'orecchio di un sostenitore bianconero 'l'importante è partecipare' dopo un'amara serata europea avrà tutto un altro significato. Nel frattempo siamo nell'epoca della relatività di uno scudetto. 

VIDEO - ALLA SCOPERTA DI... - NICOLAS PÉPÉ, IL LILLE HA UN CRAQUE DA 60 MILIONI

Sezione: Editoriale / Data: Gio 18 aprile 2019 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
vedi letture
Print