Esistono mille e più modi per descrivere questi primi quattro mesi di stagione dell’Inter, che vedono l’ambiente nerazzurro primo in classifica ed esaltato dalle prestazioni di una squadra finalmente forte e agguerrita. Assumendo la potenza catartica dello sport, specchio d'immedesimazione della vita, si possono scandagliare diverse modalità d’analisi: da quella più semplicista e banale, a quella accurata e minuziosa di numeri e statistiche, all’intramontabile similitudine letteraria, costituita da misteri e coincidenze. E’ innegabile che l’Inter di Mancini sia la più grande sorpresa di questo campionato: non tanto perché ha vinto, ma per come lo ha fatto. I nerazzurri si sono dimostrati una squadra disordinata (che è estremamente lontano dal concetto di disorganizzata), imperfetta, sterile, ma ha saputo controbattere alle sue debolezze sfoderando le caratteristiche della grande squadra: grinta, cattiveria e cinismo. Se ci fermassimo a valutare l’Inter per quanto prodotto sul rettangolo di gioco, la prima immagine che mi viene in mente è quella del volo del calabrone: è scientificamente impossibile che un essere con quelle caratteristiche possa volare, ma il nostro se ne frega della fisica e si ostina a battere i cieli. Allo stesso modo, l’Inter non era partita per essere in cima alla classifica, ma una volta ritrovatacisi, non ha smesso per un secondo di sognare, spinta da una foga agonistica che non ha avuto eguali. In un campionato senza padrone, la differenza la fanno i dettagli. E l’Inter ha saputo costruire le sue fortune sulla durezza mentale di un gruppo che è la vera forza di questa squadra. Certo, in tutte le famiglie si litiga: ciò che è successo nello spogliatoio nerazzurro dopo la partita contro la Lazio (perché è innegabile che qualcosa sia successo, basta rileggere il comunicato della società) è forse arrivato al momento giusto: i giocatori hanno capito che non si vincono le partite solo perché l’Inter è tornata l’Inter. La filosofia di fondo d’inizio campionato è rimasta invariata: nessuno è insostituibile. Appurato questo fatto, è altrettanto innegabile che il tutto sia stato clamorosamente ingigantito con il tram tram mediatico: titoli spropositati, discussioni sterili su quanto sia labile l’equilibrio della squadra… Se davvero fosse stato così, il gruppo si sarebbe sciolto ben prima del 19 dicembre. Sarebbe bastato il capitombolo interno contro la Fiorentina, o il successivo mese senza vittorie. Invece l’Inter ha ricominciato a vincere, senza cercare scuse. Il mondo è brutto è cattivo e può essere nostro per una notte soltanto. I ragazzi di Mancini sono consapevoli del ruolo di under dog che ricoprono nella bagarre per i primi posti e vogliono arrivare fino in fondo. Perché, come ci suggeriscono i Negrita, “Una volta che ho imparato a sognare…” 

Un altro aspetto del calcio moderno che faccio fatica ad accettare e il voler cercare sempre e comunque i connotati della dietrologia: in ogni articolo, dichiarazione o gesto. Oltre a non è deontologicamente corretto, è di poco gusto proprio sotto Natale… La squadra è prima, Felipe Melo è uno dei cardini dello spogliatoio e nonostante le tre giornate di squalifica rimarrà tale. E’ un giocatore che ha conquistato tutti per il proprio stile di gioco, strappando applausi fin dalla prima partita con la maglia da titolare. Come diceva Eric Cantona, “Non posso avere la passione che ho, una specie di fuoco che chiede di uscire, senza che questo fuoco a volte faccia danni. Sono consapevole di deludere di non capisce che non posso essere quello che sono senza questo lato della medaglia”. E rifiutarsi di provare a comprendere lo spirito di Melo vuol dire, in un processo catartico in salsa calcistica cui si accennava nell'incipit, non riuscire ad accettare i lati negativi delle nostre, di personalità. 

Insomma, gestire uno spogliatoio di queste proporzioni, nel contesto milanese, con l’hype che si è creato, è estremamente difficile. Per questo credo che l’uomo copertina del 2015 nerazzurro non possa che essere Roberto Mancini. Un uomo solo al comando, come Fausto Coppi alla Cuneo-Pinerolo nel 1949. Il calcio è diventato un business in cui “la pappatoria viene prima, la morale dopo”. I risultati, così come i soldi per i personaggi brechtiani de L’Opera da Tre Soldi, sono l’unico metro di giudizio valido della vita, la conditio sine qua non un allenatore può rimanere in sella alla sua panchina. In Italia soprattutto. E se Brecht, con la messa in scena di un’opera teatrale del genere aveva l’intento di scandalizzare l’ambiente borghese, allo stesso modo Mancini è riuscito a far stizzire i cosiddetti puristi del gioco, incapaci di credere nella forza di una squadra che ha nel camaleontismo tattico e nella forza fisica i suoi punti di forza. Come se in Serie A ogni anno non si facesse a gara a chi alza la barricata più alta, tanto prima o poi un gol si segna. E’ impossibile comprendere fino in fondo l’Inter di Mancini se non si contestualizza nel periodo storico-calcistico attuale, così come non si può avere un’opera come quella di Bertolt Brecht in assenza del clima successivo alla prima guerra mondiale, fatto di povertà e miseria, instabilità e insicurezza.

Ciò che ha fatto grande l’Inter è stato proprio la capacità di adattarsi alle situazioni, ammettendo in alcuni casi la superiorità dell’avversario e adattandosi di conseguenza. I limiti di questa squadra sono pressoché infiniti, così come le debolezze potrebbero essere fatali nel proseguo di stagione. Diffidate da chi sostiene di conoscere già il finale del thriller: è pressoché impossibile. La Serie A deve ancora finire il suo livellamento e sarebbe davvero stupido fare proclami o tabelle. Ciò che conta è l’adesso, la partita che si deve affrontare, quei cinque centimetri che si hanno davanti la propria faccia. In campo come nella vita, diceva Nereo Rocco. Ora l’Inter è chiamata a compattarsi e a mandare un segnale forte e chiaro agli avversari, a cominciare da Empoli-Inter, il 6 gennaio 2016 alle 18. Come mi è già capitato di scrivere, è imparando a convivere con i propri errori che si diventa grandi e ci si può scrollare di dosso paura e insicurezze. La rabbia no, quella deve rimanere: è quella che ti permette di correre un decimo di secondo più veloce per recuperare un pallone che sembrava perso. Perché è proprio da questi piccoli dettagli che si vede chi può vincere e chi è destinato a soccombere. Mancini lo sa e continua a lavorare per finire quello che, se tutto va come deve andare, potrebbe diventare il suo nuovo capolavoro: l’Opera da tre punti. 

Sezione: Editoriale / Data: Gio 24 dicembre 2015 alle 00:00
Autore: Marco Lo Prato / Twitter: @marcoloprato
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