Dopo Achraf Hakimi, il diluvio. Questo è stato, e continuerà probabilmente a rimanere, il sentiment principale sulla partenza dell’esterno marocchino, uno dei principali fautori della conquista dello Scudetto da parte dell’Inter lo scorso mese di maggio, quel tricolore che ora, partiti lui e Romelu Lukaku, già ancor prima dell’inizio del campionato viene già etichettato come una chimera per Simone Inzaghi dagli addetti ai lavori, tutti ammaliati da un grande ritorno e dimentichi, o forse volontariamente ignari, del fatto che, tra giocatori che hanno fatto sudare prima di arrivare, altri che faticano a rinnovare e altri che faticano invece a mantenere le promesse fatte al loro arrivo e che ora magari spingono per andare, di grane da risolvere anche da quelle parti ce ne sono eccome… Però, oggettivamente, la partenza del giocatore marocchino rappresenta un colpo pesante da attutire.
Sembrava tutto troppo bello, l'inizio di una stagione vissuta tanto intensamente: Achraf è arrivato a sorpresa, dopo un annuncio di un pittoresco programma televisivo spagnolo che sembrava una delle tante boutade che si sentono durante i mesi estivi e che invece è diventata una clamorosa realtà, nello spazio, a voler essere larghi, di pochi giorni. Lui, ragazzo di proprietà del Real Madrid, che l’Inter aveva iniziato a conoscere a suo discapito in una serataccia di Champions League a Dortmund dove strozzò in gola a Lukaku e compagni la gioia di un successo ribaltando quasi da solo il risultato, e dando adito anche ad un clamoroso sfogo mediatico e non solo da parte di Antonio Conte, arriva in Italia per vestire la maglia nerazzurra. E fu subito amore a prima vista, amore purtroppo impossibile da dimostrargli dal vivo per i ben noti motivi. Col cruccio di non poter mai sentire il boato del pubblico di San Siro, che avrebbe sicuramente accompagnato le sue folate come ai tempi di Maicon e Javier Zanetti con delle ovazioni da brivido, Hakimi è comunque andato per la sua strada. E che strada: a fine stagione, lo score personale parla di sette gol e undici assist, alcuni dei quali davvero pesanti, in 45 gettoni.
Sembrava tutto davvero troppo bello: dopo anni e anni, l’Inter aveva trovato il modo di vendicare una volta per tutte l’oltraggio dell’addio troppo frettoloso a Roberto Carlos, una macchia che appariva indelebile nell’onore, prima ancora che nella storia, della società nerazzurra. Finalmente, era arrivato un terzino di primissima fascia ed era arrivato in barba a quel Real Madrid che nel 1996 si prese il brasiliano, che non convinceva Roy Hodgson, e ne fece un astro del firmamento calcistico del ventesimo secolo. La ruota sembrava iniziare a girare dalla parte opposta e fare felici tutti. Ma purtroppo, quando le cose cominciano ad andare come meglio non si potesse nemmeno pensare, arriva puntuale quella sorta di legge che potrebbe essere definita ‘di Charlie Brown’, quella cioè che ti porta quasi ad avere paura di essere troppo felice perché potrebbe capitarti qualcosa di brutto. E infatti, clamorosamente puntuale, arriva il dardo avvelenato: c’è un bilancio da risanare, un attivo di mercato da concretizzare, il Psg arriva con 70 milioni e il giocatore maghrebino viene a comprare per farne un tassello del ricco giocattolo di Nasser Al-Khealifi che qualche giorno più tardi si sarebbe concesso anche l’extralusso Lionel Messi. Mentre tutti, o quasi, stanno a guardare.
Nessuno sarà mai come Achraf Hakimi: questo è stato il tormentone una volta concretizzatasi l’uscita del giovane prodigio marocchino. Tormentone, in effetti, alquanto giustificabile: per prospettive, età, potenzialità ancora inespresse e margini di miglioramento, tutto lascia presagire che Hakimi detterà in qualche modo legge nel suo ruolo per anni e anni, con l’Inter che alla fine dei conti si è ritrovata a gustare solo un assaggio, peraltro succoso, delle sue qualità, insomma passando come quelli che assaporano la pasta per controllarne la cottura prima che questa venga servita sul piatto di un altro. E, come spiegato anche la scorsa settimana, tutte le soluzioni possibili avrebbero dovuto pagare lo scotto del pesante paragone. Situazione difficile, anche perché i primi nomi circolati non erano esattamente di quelli che facevano impazzire di gioia i tifosi. Senonché, nel mentre, durante i trionfali Europei di quest’estate faceva capolino un ragazzo interessante, che recitava da leader nella Nazionale olandese di Frank de Boer e che strappava consensi con le sue giocate, al punto da essere eletto star of the match degli incontri con Austria e Ucraina.
Finché gli Oranje hanno avuto birra in corpo, prima di squagliarsi al cospetto della Repubblica Ceca, Denzel Dumfries, classe 1996, nato a Rotterdam ma originario di Aruba da parte di padre, è stato sicuramente uno dei punti cardine della squadra dell’ex tecnico nerazzurro, facendosi sentire anche in zona gol andando a referto nelle prime due gare del torneo: una cosa che è riuscita nella storia dei Tulipani solo ad un signore di nome Ruud van Nistelrooij, non uno qualunque indubbiamente. Ma la sua situazione era resa particolare anche da un altro dettaglio: Dumfries arrivava infatti alla kermesse continentale avendo già informato il suo club, il Psv Eindhoven, dell’intenzione di volere andare via. Lui che oltretutto di quella squadra era il capitano: situazione che in altri contesti avrebbe sicuramente generato scalpore e forse anche isterie, ma che nella città della Philips hanno saputo gestire con tatto e temperanza. Forse già da allora, in Olanda, erano consci del forte interesse dell’Inter, magari agevolato dal suo agente Mino Raiola che ha in dote una colonna come Stefan de Vrij e che ha pensato bene di venire in aiuto dei dirigenti nerazzurri indicando uno degli elementi più brillanti della sua scuderia come soluzione.
Già da tempi non sospetti, nel suo Paese, gli addetti ai lavori si sono sbilanciati sulla destinazione Inter per Dumfries, mentre le altre piste, in primis quella legata all’Everton di Rafa Benitez, non hanno mai goduto di particolare credito. Lui intanto aspetta, torna dalle vacanze, rispettosamente si allena a parte per non intralciare la corsa alla Champions dei compagni. Finché non arriva il mini-budget derivante dalla partenza di Romelu Lukaku verso il Chelsea, l’affare si sblocca e in una calda serata di metà estate meneghina, Denzel Dumfries può fare il suo sbarco a Milano, presentandosi come pronto ed affamato, sicuramente di successi in nerazzurro ma magari in quel momento più di cibo dopo il volo. Nessuno sarà come Hakimi e non è nemmeno lecito caricare subito Dumfries del fardello del paragone col suo predecessore, ma indubbiamente l’Inter porta a casa un elemento di sicure qualità. I numeri collezionati in Eredivisie, dove ha primeggiato nel suo ruolo per gol e assist dal momento del suo esordio, parlano chiaro, anche se è lapalissiano che la Serie A sarà un palcoscenico decisamente più probante del campionato olandese. Ma con Dumfries, l’Inter guadagna un quid non di poco conto in materia di atletismo, fondamentale per il gioco che chiede Inzaghi. E soprattutto, arriva già pronto per il modulo a cinque, e quindi presumibilmente non si dovrà fare tutto il lavoro di costruzione e adattamento ad un nuovo schema che è servito a Conte per Hakimi, il che è un vantaggio non da poco.
Tante le dichiarazioni di rito una volta arrivato in Italia per Dumfries, ma ciò che alla fine fa più riflettere è l’atteggiamento tenuto dal Psv Eindhoven una volta ufficializzato l’addio del proprio capitano. Altrove, la partenza di un giocatore comunque simbolo del club avrebbe causato momenti di rabbia, sconforto, magari comunicati avvelenati; qui, invece, le Lampadine si sono solo preoccupate di rendergli tutti gli onori del caso. Tra gli accorati messaggi di incitamento del dt John de Jong e dell’allenatore Roger Schmidt, il videomessaggio per i tifosi e addirittura l’ultima intervista nella quale liberamente parla della sua nuova squadra e del perché l’ha scelta, dà un quadro sintetico ma efficace della differenza di cultura, prima ancora che di comunicazione, tra Paesi dove il calcio è passione e dove diventa psicodramma. E qui non c’entra nemmeno la questione di un eventuale incasso da record, come magari avvenuto qualche anno fa allo Sporting Lisbona con Joao Mario.
Denzel Dumfries lascia la squadra della quale era capitano e dove era idolo dei tifosi, che gli hanno tributato un coro sulla base inconfondibile di ‘Just Can’t Get Enough’, prima hit assoluta dei Depeche Mode, che a quasi 40 anni suonati dall’uscita (il singolo fu pubblicato il 7 settembre 1981) fa ancora tendenza specie negli stadi, al punto da essere udibile un po’ ovunque, dalla Scozia cantato dai tifosi del Celtic alla Sardegna dove viene sparato dagli altoparlanti della Unipol Domus a ogni gol del Cagliari. Chissà se un giorno arriverà anche per lui un coro simile dalla Curva Nord. Di certo c’è che adesso, i tifosi potranno, seppur in misura ridotta, accompagnarne le folate sulla destra coi boati di cui sono capaci. Sperando possa avvenire spesso.
Sembrava tutto troppo bello, l'inizio di una stagione vissuta tanto intensamente: Achraf è arrivato a sorpresa, dopo un annuncio di un pittoresco programma televisivo spagnolo che sembrava una delle tante boutade che si sentono durante i mesi estivi e che invece è diventata una clamorosa realtà, nello spazio, a voler essere larghi, di pochi giorni. Lui, ragazzo di proprietà del Real Madrid, che l’Inter aveva iniziato a conoscere a suo discapito in una serataccia di Champions League a Dortmund dove strozzò in gola a Lukaku e compagni la gioia di un successo ribaltando quasi da solo il risultato, e dando adito anche ad un clamoroso sfogo mediatico e non solo da parte di Antonio Conte, arriva in Italia per vestire la maglia nerazzurra. E fu subito amore a prima vista, amore purtroppo impossibile da dimostrargli dal vivo per i ben noti motivi. Col cruccio di non poter mai sentire il boato del pubblico di San Siro, che avrebbe sicuramente accompagnato le sue folate come ai tempi di Maicon e Javier Zanetti con delle ovazioni da brivido, Hakimi è comunque andato per la sua strada. E che strada: a fine stagione, lo score personale parla di sette gol e undici assist, alcuni dei quali davvero pesanti, in 45 gettoni.
Sembrava tutto davvero troppo bello: dopo anni e anni, l’Inter aveva trovato il modo di vendicare una volta per tutte l’oltraggio dell’addio troppo frettoloso a Roberto Carlos, una macchia che appariva indelebile nell’onore, prima ancora che nella storia, della società nerazzurra. Finalmente, era arrivato un terzino di primissima fascia ed era arrivato in barba a quel Real Madrid che nel 1996 si prese il brasiliano, che non convinceva Roy Hodgson, e ne fece un astro del firmamento calcistico del ventesimo secolo. La ruota sembrava iniziare a girare dalla parte opposta e fare felici tutti. Ma purtroppo, quando le cose cominciano ad andare come meglio non si potesse nemmeno pensare, arriva puntuale quella sorta di legge che potrebbe essere definita ‘di Charlie Brown’, quella cioè che ti porta quasi ad avere paura di essere troppo felice perché potrebbe capitarti qualcosa di brutto. E infatti, clamorosamente puntuale, arriva il dardo avvelenato: c’è un bilancio da risanare, un attivo di mercato da concretizzare, il Psg arriva con 70 milioni e il giocatore maghrebino viene a comprare per farne un tassello del ricco giocattolo di Nasser Al-Khealifi che qualche giorno più tardi si sarebbe concesso anche l’extralusso Lionel Messi. Mentre tutti, o quasi, stanno a guardare.
Nessuno sarà mai come Achraf Hakimi: questo è stato il tormentone una volta concretizzatasi l’uscita del giovane prodigio marocchino. Tormentone, in effetti, alquanto giustificabile: per prospettive, età, potenzialità ancora inespresse e margini di miglioramento, tutto lascia presagire che Hakimi detterà in qualche modo legge nel suo ruolo per anni e anni, con l’Inter che alla fine dei conti si è ritrovata a gustare solo un assaggio, peraltro succoso, delle sue qualità, insomma passando come quelli che assaporano la pasta per controllarne la cottura prima che questa venga servita sul piatto di un altro. E, come spiegato anche la scorsa settimana, tutte le soluzioni possibili avrebbero dovuto pagare lo scotto del pesante paragone. Situazione difficile, anche perché i primi nomi circolati non erano esattamente di quelli che facevano impazzire di gioia i tifosi. Senonché, nel mentre, durante i trionfali Europei di quest’estate faceva capolino un ragazzo interessante, che recitava da leader nella Nazionale olandese di Frank de Boer e che strappava consensi con le sue giocate, al punto da essere eletto star of the match degli incontri con Austria e Ucraina.
Finché gli Oranje hanno avuto birra in corpo, prima di squagliarsi al cospetto della Repubblica Ceca, Denzel Dumfries, classe 1996, nato a Rotterdam ma originario di Aruba da parte di padre, è stato sicuramente uno dei punti cardine della squadra dell’ex tecnico nerazzurro, facendosi sentire anche in zona gol andando a referto nelle prime due gare del torneo: una cosa che è riuscita nella storia dei Tulipani solo ad un signore di nome Ruud van Nistelrooij, non uno qualunque indubbiamente. Ma la sua situazione era resa particolare anche da un altro dettaglio: Dumfries arrivava infatti alla kermesse continentale avendo già informato il suo club, il Psv Eindhoven, dell’intenzione di volere andare via. Lui che oltretutto di quella squadra era il capitano: situazione che in altri contesti avrebbe sicuramente generato scalpore e forse anche isterie, ma che nella città della Philips hanno saputo gestire con tatto e temperanza. Forse già da allora, in Olanda, erano consci del forte interesse dell’Inter, magari agevolato dal suo agente Mino Raiola che ha in dote una colonna come Stefan de Vrij e che ha pensato bene di venire in aiuto dei dirigenti nerazzurri indicando uno degli elementi più brillanti della sua scuderia come soluzione.
Già da tempi non sospetti, nel suo Paese, gli addetti ai lavori si sono sbilanciati sulla destinazione Inter per Dumfries, mentre le altre piste, in primis quella legata all’Everton di Rafa Benitez, non hanno mai goduto di particolare credito. Lui intanto aspetta, torna dalle vacanze, rispettosamente si allena a parte per non intralciare la corsa alla Champions dei compagni. Finché non arriva il mini-budget derivante dalla partenza di Romelu Lukaku verso il Chelsea, l’affare si sblocca e in una calda serata di metà estate meneghina, Denzel Dumfries può fare il suo sbarco a Milano, presentandosi come pronto ed affamato, sicuramente di successi in nerazzurro ma magari in quel momento più di cibo dopo il volo. Nessuno sarà come Hakimi e non è nemmeno lecito caricare subito Dumfries del fardello del paragone col suo predecessore, ma indubbiamente l’Inter porta a casa un elemento di sicure qualità. I numeri collezionati in Eredivisie, dove ha primeggiato nel suo ruolo per gol e assist dal momento del suo esordio, parlano chiaro, anche se è lapalissiano che la Serie A sarà un palcoscenico decisamente più probante del campionato olandese. Ma con Dumfries, l’Inter guadagna un quid non di poco conto in materia di atletismo, fondamentale per il gioco che chiede Inzaghi. E soprattutto, arriva già pronto per il modulo a cinque, e quindi presumibilmente non si dovrà fare tutto il lavoro di costruzione e adattamento ad un nuovo schema che è servito a Conte per Hakimi, il che è un vantaggio non da poco.
Tante le dichiarazioni di rito una volta arrivato in Italia per Dumfries, ma ciò che alla fine fa più riflettere è l’atteggiamento tenuto dal Psv Eindhoven una volta ufficializzato l’addio del proprio capitano. Altrove, la partenza di un giocatore comunque simbolo del club avrebbe causato momenti di rabbia, sconforto, magari comunicati avvelenati; qui, invece, le Lampadine si sono solo preoccupate di rendergli tutti gli onori del caso. Tra gli accorati messaggi di incitamento del dt John de Jong e dell’allenatore Roger Schmidt, il videomessaggio per i tifosi e addirittura l’ultima intervista nella quale liberamente parla della sua nuova squadra e del perché l’ha scelta, dà un quadro sintetico ma efficace della differenza di cultura, prima ancora che di comunicazione, tra Paesi dove il calcio è passione e dove diventa psicodramma. E qui non c’entra nemmeno la questione di un eventuale incasso da record, come magari avvenuto qualche anno fa allo Sporting Lisbona con Joao Mario.
Denzel Dumfries lascia la squadra della quale era capitano e dove era idolo dei tifosi, che gli hanno tributato un coro sulla base inconfondibile di ‘Just Can’t Get Enough’, prima hit assoluta dei Depeche Mode, che a quasi 40 anni suonati dall’uscita (il singolo fu pubblicato il 7 settembre 1981) fa ancora tendenza specie negli stadi, al punto da essere udibile un po’ ovunque, dalla Scozia cantato dai tifosi del Celtic alla Sardegna dove viene sparato dagli altoparlanti della Unipol Domus a ogni gol del Cagliari. Chissà se un giorno arriverà anche per lui un coro simile dalla Curva Nord. Di certo c’è che adesso, i tifosi potranno, seppur in misura ridotta, accompagnarne le folate sulla destra coi boati di cui sono capaci. Sperando possa avvenire spesso.
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