Effettivamente, è stato un colpo abbastanza difficile da mandare giù. Anche se arrivato contro un Sassuolo che ormai per l’Inter definire ‘bestia nera’ sembra ormai riduttivo visti gli ultimi precedenti, e che in quel di San Siro ha ritrovato forma e smalto dopo la bambola clamorosa patita contro l’Atalanta, prestazione talmente importante da ricevere come premio la clamorosa cessione in prestito di Kevin-Prince Boateng al Barcellona, il pari di sabato sera a San Siro è risultato abbastanza indigesto all’Inter. Perché arrivato al termine di uno spettacolo decisamente poco decoroso offerto ai bambini invitati al Meazza per fare da portabandiera all’encomiabile progetto ‘BUU’ (e pazienza se alcuni di loro mostravano orgogliosi sciarpe di altri colori…), un netto passo indietro rispetto a quanto fatto vedere solo qualche giorno prima, in un’atmosfera ancora più lugubre, contro il Benevento in Coppa Italia.

Decisamente netta la differenza di categoria tra i sanniti, una pratica resa agevole dai due gol arrivati dopo nemmeno sette minuti, e i neroverdi, questo è ovvio. Ma era molto difficile prevedere che la leggerezza mostrata solo sei giorni prima si sarebbe clamorosamente ribaltata trasformandosi in un’indicibile pesantezza nel mostrare trame di gioco apprezzabili. Non si paga dazio in termini di classifica, visto che comunque il terzo posto resta saldo (anche se dichiarazioni da slancio vitale del tipo: ‘Andiamo a prendere il Napoli’ forse è meglio risparmiarle per tempi più consoni) e le combinazioni di partite proposte dalle ultime due giornate mischieranno ulteriormente le carte nella corsa alle spalle dei nerazzurri che dovranno essere bravi ad approfittarne raccogliendo il massimo possibile tra Torino e Bologna, con in mezzo il nuovo impegno di Coppa contro la Lazio. Ma se spostiamo il discorso sul piano del gioco, allora sì che i dubbi avanzano.

La vendemmia di gol di Coppa Italia è stata una fugace supernova, perché sono bastati sei giorni perché si riproponesse un problema, ovvero quello della difficoltà dell’Inter di trovare la via della rete. D’accordo, quelli arrivati nelle ultime parte sono stati gol da tre punti, dalle gare interne con Udinese e Napoli fino al match di chiusura del 2018 contro l’Empoli. Ma questa volta il guizzo vincente non è arrivato, anzi, a parte un paio di circostanze, mai c’è stata la parvenza che la giocata risolutiva potesse arrivare. Merito certamente di un Sassuolo e di un Roberto De Zerbi bravo a trovare prontamente le contromisure ideali a sterilizzare le fonti di gioco nerazzurre, ma è apparso alquanto evidente come la stessa Inter ci abbia messo molto di suo: a furia di pensare principalmente a mantenere l’equilibrio, la banda di Luciano Spalletti ha finito col perdere le altre caratteristiche di rilievo. Poche idee, poca incisività nella manovra, nessuno spunto o quasi da parte dei singoli, nemmeno d’impeto o d’istinto.

Troppo poco, per non dire nulla si è visto. E allora, ecco che puntualmente è partita la caccia al colpevole: nel mirino, in particolare, c’è il tecnico Spalletti, con diversi capi d’accusa. Il principale, ovviamente, è l’insistenza nell’agire con un modulo diventato troppo prevedibile e che ora sta mettendo a nudo tutti i suoi limiti, in primis quelli legati agli interpreti. Fra un po’ magari sentiremo di petizioni popolari per chiedere l’impiego in pianta stabile delle due punte, con un Lautaro Martinez che non può essere più solo la mossa della disperazione, del ‘salviamo il salvabile’, ma nella mente dei più deve diventare un complemento indispensabile per lasciare meno solo Mauro Icardi. Discorso facile a farsi, visto il momento: ma non va dimenticato che il tecnico di Certaldo ha costruito la squadra secondo dettami ben precisi, che prevedono le due punte solo in caso di necessità, come ha anche sottolineato con semplicità e qualità uno che i tratti dell’allenatore li aveva già in campo come Esteban Cambiasso.

E visto che il modulo con una punta più di una volta ha dato ottimi frutti, allora forse bisogna concentrarsi su cosa sta effettivamente latitando tra gli interpreti deputati a recitare in codesto schema, specie dalla cintola in su: su Radja Nainggolan e sulle ataviche difficoltà di questa tormentata stagione è già stata scritta e pubblicata una letteratura amplissima, che quanto ancora sarà ampia dipenderà solo dal belga e dalla sua voglia di riscattare un’amarissima prima parte di stagione; Marcelo Brozovic svolge in maniera egregia il suo lavoro nel dettare il gioco ma fatica oltremodo nel trovare lo spunto vincente in fase offensiva, mentre Joao Mario, seppur lontano parente dell’ectoplasma di tempi recenti, dopo alcune partite di alto livello ha rallentato la marcia. E se spostiamo l’attenzione sulle fasce, lì da dove dovrebbero arrivare i principali rifornimenti, si arriva ad uno dei punti più scottanti dell’intera faccenda. Perché, se da un lato Matteo Politano ha impattato benissimo con la nuova realtà nerazzurra e anche sabato col Sassuolo è stato l’uomo che bene o male ha creato più difficoltà alla retroguardia neroverde, dall’altro lato si sente invece risuonare probabilmente il campanello d’allarme più forte.

La scorsa stagione, per ampi tratti, è stata lui la risorsa complementare ad Icardi, al punto da stuzzicare la fantasia dei social media manager nerazzurri abili a lanciare un hashtag ad hoc. Ma della discontinuità di rendimento nel corso di una stagione Ivan Perisic ha fatto una caratteristica peculiare della sua esperienza nerazzurra: non è stata una rarità vederlo infatti alternare fasi di partite giocate da potenziale top player a momenti di buio assoluto più o meno lunghi. Quest’anno, però, la tendenza negativa si è decisamente accentuata: pochissimi i veri lampi sin qui del croato, autore di tre gol appena in campionato e quasi evanescente in Champions League. Una situazione allarmante alla quale la fiducia ostinata di Spalletti, che continua a schierarlo provando magari a far scoccare la scintilla, magari cambiando il ruolo piuttosto che sacrificarlo, non riesce a porre rimedio.

Qual è il male oscuro che turba il ragazzo di Spalato? Qualche spiritello maligno potrebbe ipotizzare che Perisic ne abbia ormai abbastanza dell’Inter e della Serie A in generale, specie considerando che negli anni scorsi per lui hanno suonato suadenti le sirene provenienti da Oltremanica, e a sostegno di questa tesi è pronto a portare le parole rilasciate ad un celeberrimo magazine britannico uscite a ridosso della fondamentale sfida di Champions col Tottenham (ma rilasciate sicuramente ben prima, visto che ogni addetto ai lavori dovrebbe sapere bene che un numero di un mensile ha tempi di lavorazione nettamente anticipati rispetto all’uscita). Sirene che l’Inter ha sempre, orgogliosamente, scacciato, preferendo mantenere i propri campioni respingendo l’idea della facile plusvalenza da big con la quale sistemare i conti e assolvere i doveri con l’Uefa per altre vie.

C’è un’altra facile causa da individuare per provare a spiegare le attuali difficoltà di Perisic, vale a dire il Mondiale, quel Mondiale nel quale ha contribuito a scrivere una pagina indelebile di storia non solo di un movimento calcistico, ma di una Nazione intera. Gli stessi tifosi interisti oggi si tormentano vedendo in campo la bruttissima copia di quel giocatore che l’estate scorsa ha fatto luccicare gli occhi a tutti recitando da protagonista assoluto sui campi russi, con tanto di gol pesantissimi e rete dell’illusorio 1-1 nella finale del Luzhniki di Mosca contro la Francia. Un Mondiale, indubbiamente, toglie tantissime energie fisiche e anche mentali, ma anche quest’alibi francamente può reggere fino a un certo punto. Basti guardare nemmeno troppo lontano, visto che, a parte Sime Vrsaljko il cui corpo è notoriamente delicato come la seta, il resto del gruppo dei reduci dalla campagna iridata viaggia a velocità di crociera avendo smaltito naturalmente tutte le tossine.

Del resto, sono tenzoni calcistiche anche quelle, la classica routine di chi fa questo mestiere; anche se qui sembra di parlare di un Ercole reduce dalle dodici fatiche di mitologica memoria. E allora, ci chiediamo nuovamente, qual è il male oscuro di Ivan Perisic? È stato davvero depauperato di tutte le energie a disposizione? L’atmosfera della Serie A lo ha davvero stancato? Oppure, ipotesi volendo surreale ma non per questo da sottovalutare nella sua pericolosità, ritiene di aver raggiunto il massimo traguardo possibile dopo il traguardo della finale mondiale e di non aver più margini di crescita?

Quesiti ai quali serve una risposta anche in breve tempo, in primo luogo per lui perché c’è ancora mezza stagione davanti e lui ha ancora dei crediti da giocarsi, anche considerando che una volta uscito dai box è pronto a rimettere la freccia Baldé Keita che negli ultimi tempi ha offerto maggiori garanzie e affidabilità. In estate, poi, starà alla società capire se continuare a insistere sulla linea del ‘non expedit’ oppure finalmente cedere alla tentazione di privarsi di uno dei suoi gioielli (in caso di offerta congrua, forse la risposta è facile da trovare). Ma intanto, serve che il miglior Perisic, quello delle giocate d’alta classe che magari spaccano le partite, torni e alla svelta. Ne va di lui, dell’Inter e dei suoi obiettivi stagionali.

Sezione: Editoriale / Data: Mer 23 gennaio 2019 alle 00:00
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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