La Serie A è tornata ad allenarsi. Tanto si è spinto e insistito che i centri sportivi hanno riaperto le porte a sedute individuali, o comunque ridotte, seguite ai primi test, tamponi e verifiche. Nulla è deciso e in attesa che la curva dei contagi ci mostri, a metà mese, gli effetti delle prime, timide quanto invocate e sospirate riaperture e ripartenze, il calcio italiano non vuole farsi trovare impreparato, non vuole rimanere indietro rispetto, ad esempio, a quello tedesco che viaggia ad altra velocità e vuole insomma presentarsi al tavolo con gli organi di governo potendo sbattere i pugni: noi ci siamo, ditecelo voi che dobbiamo chiudere tutto.
I casi di contagio rilevati da Fiorentina, Torino e Samp possono portare qualcuno a dire "ecco, appunto, come si fa a giocare?" e altri, invece, a osservare che i test servono proprio per verificare le condizioni dei giocatori e, al limite, prendere i provvedimenti necessari isolandoli prima di riconsentire loro la ripresa dell'attività. Qualcuno ha persino notato: "Ci aspettavamo più casi".
Molti giocatori sono asintomatici, segno che la differenza tra un tampone fatto e uno negato è piuttosto evidente (chissà tra cittadini e lavoratori comuni che non ne hanno mai fatto uno quanti saranno gli asintomatici?), segno anche che, al momento, il mantenimento delle distanze e la ripresa delle attività nel più assoluto rispetto delle norme anti-contagio sono, di fatto, l'unica cosa possibile da fare appurata la necessità, e in certi casi anche il colpevole ritardo, con cui la vita economica e lavorativa deve essere messa nelle condizioni di provare a rimettersi in marcia.
Come il calcio possa attenersi a queste norme resta un mistero che chi scrive non riesce proprio a svelare. Perché un conto è fare allenamenti basati sulla corsa, sul palleggio, sulla tenuta fisica. Ben diverso è giocare partite vere, con in ballo punti veri e titoli veri. Come sarà la situazione a giugno e luglio al momento è impossibile saperlo ma certo è che la condivisione di uno spogliatoio, lo sforzo fisico a elevate temperature, il contatto, lo scontro fisico e il sudore non sembrano rientrare nella casistica delle buone abitudini da adottare per imparare a convivere con il virus.
O comunque c'è qualcosa di anomalo rispetto ai concetti di guanti e mascherina da indossare sempre, distanziamento sociale da mantenere. Addirittura ci sono stabilimenti balneari che studiano le adeguate distanze tra un ombrellone e l'altro; attività turistiche nel panico perché ancora non è chiaro se gli spostamenti all'interno del Paese saranno liberi o diversificati a seconda della regione di provenienza. Ma secondo qualcuno ci sono protocolli per terminare in sicurezza un campionato, che su spostamenti e contatti è basato.
"Il lato positivo" è un film che mette in scena una sorta di preparazione alla vita, in equilibrio tra dramma e commedia. Il protagonista esce da un ospedale psichiatrico dopo otto mesi e attraverso la convivenza forzata con i genitori cerca di portare avanti la sua terapia e riprendersi una vita il più possibile normale, tra divieti di avvicinamento ad altre persone e una lotta per mantenere l'autodisciplina. Tutto quello che abbiamo vissuto dalla fine di febbraio a oggi costringe, ha costretto e costringerà, ognuno a fare i conti con il proprio equilibrio da ritrovare e con lati positivi e negativi da scovare. Ci sono conti da fare con la vita sociale, lavorativa e affettiva come con i propri più intimi pensieri. Nulla è facile o scontato perché tutto è stato stravolto e tutto è chiamato a ripartire.
Essere ottimisti o pessimisti può fare una gran differenza, o generare illusioni. Al contrario, la chiara individuazione delle priorità è un elemento essenziale. C'è una vita che ci vogliamo riprendere e un lavoro che vogliamo ricominciare a fare. Tutti i lavori sono ugualmente importanti ed è per questo che certi settori non devono, non possono e non gli va consentito, di ritenersi al di sopra di altri.
Perché, ad esempio, cinema, teatri, spettacoli, concerti, eventi, mostre dovrebbero stare pazientemente con le mani in mano ad aspettare il proprio turno quando il calcio, anch'esso all'interno dell'industria dello spettacolo, pretende di chiudersi nei suoi confini dorati e andare avanti? Che poi: a chi piacerebbe questo finale di campionato incerto e convulso? Con il rischio di nuovi casi positivi, altri mai passati del tutto, giocatori già sul mercato che intanto giocano con una maglia che dopo pochi giorni sanno già di svestire, continui controlli negati ad altri, vittorie da festeggiare nell'isolamento del proprio mondo a parte.
L'aspetto economico o la smisurata competizione di chi ha qualcosa di importante da giocarsi sono indiscutibilmente un lato della faccenda. E molte cose, in genere, presentano due punti di vista. Il positivo e il negavo, proprio come i tamponi: le pile, le medaglie, le monete, i lati. Basta solo decidere quale lato guardare. Così come basta decidere che calcio continuare a seguire e per quale calcio continuare a fare il tifo. Quali priorità stabilire nel momento sanitario, economico e sociale più difficile che questo Paese, e con esso il resto del mondo, si sia forse mai trovato a dover vivere.
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