La semplice verità, forse, è che nessuno vuole metterci la faccia. Nessuno vuole pronunciare quella definitiva parola: stop. E quindi si gioca di rimbalzo, tra attese, rimandi di responsabilità e riunioni che provano a rendere logico l'illogico salvo poi rendersi conto delle difficoltà, dell'impraticabilità e dei rischi di un ritorno in campo.

Il campionato che tutti dicono di voler portare a termine (ma è davvero così?) e che nessuno ha il coraggio di riconoscere, almeno pubblicamente, come e quanto finirebbe per essere ridicolo. E sbagliato. E persino la negazione stessa dei principi sportivi. In questo senso chiarissimo è già stato Gabriele Gravina, presidente della Figc: "Non sarò io il becchino del calcio italiano", ha detto. Della serie: lo faccia qualcun altro, il becchino. E in ogni caso complimenti per la sensibile e azzeccata metafora utilizzata, in questo momento tragico e dolorosissimo per tutti.

Domani in Italia inizia la Fase 2: un concentrato di rischi necessari e pericoli non più rimandabili. Oltre 4 milioni e mezzo di lavoratori faranno le prove generali per vedere quel che resta e cosa resta di molte attività. Con l'incognita di come si muoverà chi deve utilizzare i mezzi pubblici, come si gestisce uno spazio lavorativo che deve assecondare normative e regole nuove, necessarie, vitali. Con l'incognita di quella curva del contagio da tenere sotto costante monitoraggio per verificare cosa succede, per decidere se si possa andare avanti con la fase di graduale ritorno alla normalità o se, invece, fermi tutti si torna indietro.

Incognite, tentativi, esperimenti. Con in gioco non uno scudetto ma la salute, la capacità economica, la tenuta sociale di milioni di persone e di un Paese. Qualcuno, in tutto questo, si lamenta di non potersi allenare in un centro sportivo, altri lo potranno fare e questo è un discorso diverso. Chi si lamenta di non poter tornare ad allenarsi il 4 maggio davvero ignora che l'allenamento individuale è solo l'ultimo dei problemi quando invece impossibile diventa pensare agli allenamenti di gruppo, ai contatti, al sudore e agli spazi condivisi? Per tacere delle misure che si renderebbero necessarie per sterilizzare gli ambienti e monitorare la salute di atleti e staff tramite tamponi continui per poter tornare a giocare delle partite. Inutile, perché ovvio, pensare a un castello di carte pronto a crollare al primo caso di positività.

Perché dunque si continua a discutere, a rimandare l'inevitabile? Perché il mondo del calcio vuole scontrarsi con il governo e poi aspettare che sia esso a fare da "becchino" e dire finalmente, in maniera sacrosanta e doverosa, stop? Perché per una volta non riesce a essere rispettoso verso tifosi, il mondo reale e soprattutto verso tutti gli altri sport mettendosi in prima fila di quella delegazione che dovrà sì andare dal governo e non per pretendere che sia un ministro a metterci la faccia e a dire basta ma per chiedere a gran voce interventi e misure mirate per il futuro?

Come si è già scritto, l'obbligo di fermarsi coincide con la possibilità di ripensare e ridisegnare il futuro. Soprattutto se esistono circa 50mila società sportive in Italia che rischiano la bancarotta a causa dei danni economici, di sponsor e di immagine conseguenti al coronavirus. Perché quindi attorno a un tavolo non ci si siede per parlare di come ripartire, con quali strutture, con quali obiettivi, facendo quadrare quali conti, chiedendo al governo quali misure finanziarie di sostegno? Facendo quadrato attorno all'essenza e alla vitalità dello sport, come valore e come parte stessa dell'economia del Paese, oltre che della sua immagine e della sua storia, della sua cultura e del suo futuro.

Essere un settore strategico significa anche sapersi fare promotori dei giusti messaggi e promulgatori di logiche decisioni. Senza litigi, ricatti, rischi di tribunali, discussioni su diritti televisivi. In un mondo ideale, forse, dirà qualcuno. Ma un mondo che cambia non concede deroghe: non ci è stato chiesto il permesso eppure ci siamo ritrovati chiusi in casa, privati degli affetti, molti senza un lavoro, alcuni senza la possibilità di riprenderlo. Perché il mondo cambia e chi non sta al passo soccombe. Chi non lo capisce è semplicemente stupido. O attaccato a valori sbagliati di cui forse, un giorno, non saprà di cosa farsene.

Non possiamo determinare quello che ci succede ma possiamo decidere come reagire e quale immagine offrire di noi. Il calcio offre quella di un ricco settore strategico che scalpita per rinchiudersi, ogni tre giorni, in stadi afosi e desolati, attirando a sé i soldi delle tv, le risorse dei medici, le attenzioni dei virologi. Ma allontanando, forse definitivamente, i sogni di molti bambini e la passione dei tifosi, distaccandosi dalla realtà di un Paese che con coraggio e sacrificio starà vivendo una sorta di dopoguerra che obbliga a rimuovere le macerie e costruire da zero. Ma rinchiuso nella sua torre d'avorio, che ne sa questo calcio delle macerie, fino a quando non saranno le sue.

Un personale in bocca al lupo e un abbraccio a tutti coloro che domani si rimetteranno in moto: siate prudenti, fate le cose giuste. Abbiatela un po' di paura, sì, perché la paura ci porta ad essere vigili e attenti ma siate anche coraggiosi, nonostante tutto. E non arrendetevi, mai.

Sezione: Editoriale / Data: Dom 03 maggio 2020 alle 00:00
Autore: Giulia Bassi / Twitter: @giulay85
vedi letture
Print