"Essere o non essere, questo è il problema". Il quesito esistenziale più famoso della letteratura riguarda anche l'Inter che in un finale di stagione tutto sommato tranquillo resta, proprio per questo, prigioniera della sua mediocrità, del suo stare nel mezzo. Senza, veramente, vivere o morire, come si chiede Amleto. Essere o non essere?
Con la Juve è finita quasi come all'andata: prestazione buona ma non per 90 minuti contro un avversario sonnolento a cui basta svegliarsi all'improvviso. E soprattutto: altra vittoria rimandata. Davvero ci si accontenta di non essere usciti con le ossa rotte, di aver fatto paura ai campioni in carica, di aver avuto delle occasioni e di aver, magari, anche meritato? Era stato scritto un girone fa: questo significa accettare la mediocrità.
L'intera stagione dell'Inter, che pure ha vissuti di momenti buoni (alcuni anche molto buoni), è stata però caratterizzata dal rimanere nel mezzo, dal fare una cosa bella ma non fino in fondo, dell'andarci vicino, dallo sfiorare l'impresa, dall'accontentarsi, dal giocare per un tempo o poco più per poi fermarsi, dal creare ma senza sfruttare. All'insegna del vorrei ma non posso, del vorrei ma non ci riesco. Questo non permette di fare il salto di qualità e a Spalletti, quest'anno, è sempre e puntualmente mancata la capacità di fare il salto di qualità. Per colpa in parte sua e in parte del materiale che ha disposizione. I miracoli li fanno in pochi e far rendere i giocatori più di quel che valgono è impresa rara. Soprattutto se le difficoltà maggiori sono quelle legate alla mentalità.
Non che una vittoria contro la Juve avrebbe cambiato il senso del campionato (anche questo, anzi, sarebbe un atteggiamento mediocre). Ma semplicemente ha confermato l'incapacità di elevarsi, di fare davvero quel passo che ti porta oltre. Ha confermato che manca sempre qualcosa. O qualcuno. L'Inter di quest'anno, così come quello dello scorso, è squadra da piazzamento. Nulla più. Che poi è anche un passo avanti rispetto alle stagioni in cui i nerazzurri a malapena raggiungevano una posizione di classifica buona per giocare le coppe. Per questo i primi due anni di Spalletti sono serviti come "normalizzatori" rispetto alle a-normalità e alle sciagure di annate in cui cambiavano allenatori in serie per poi magari terminare il campionato con un quinto o sesto posto.
L'Inter degli ultimi due anni ha vissuto rivoluzioni societarie che prima di arrivare all'assestamento necessitano, inevitabilmente, di scosse anche violente. E di errori. Tipo quelli della stagione iniziata con Mancini e finita con Vecchi passando per De Boer e Pioli. O tipo vagonate di milioni spesi per giocatori che non fanno la differenza, hanno poco carattere o poca qualità o poco di entrambe le cose. Ma imparando dal passato, mettendo gli uomini giusti nei ruoli chiave (in campo come fuori) e facendo un passo alla volta riabituandosi prima a giocare per vincere e poi anche a vincere, la "normalizzazione" non dovrà più significare terzo o quarto posto ma lotta per il primo e competitività, ma anche credibilità, a livello internazionale.
Questo per dire che l'Inter attuale è mediocre ma era forse inevitabile che lo fosse perché dopo le annate fatte di disastri e mancata progettualità, bisognava rimettere in moto la macchina, quindi ripartire e poi ingranare le marce. Una alla volta. Non si può partire dalla quinta e nemmeno dalla quarta. Per questo un trofeo, come ad esempio la tanta bistrattata Coppa Italia, avrebbe fatto un gran bene a un gruppo e a un club a digiuno. Perché l'abitudine a vincere non la compri ma la acquisisci sul campo, appunto, vincendo.
Cosa che l'Inter, a partire dalla società e dalle sue scelte anche drastiche, dovrà provare a fare dal prossimo anno senza ulteriori rinvii: farlo significherà crescere in fretta e azzeccare tutte le mosse. Difficile. Ma già cambiare mentalità e non insistere più su chi, in questi anni e in questi mesi, ha mostrato (sempre gli stessi) limiti in tal senso potrebbe avvicinare la svolta. O per lo meno far capire se l'Inter vuole essere o non essere. Vivere o morire. Provare a fare il salto di qualità o rimanere, ancora, nel mezzo.
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