No, è che leggendo il nome di Stefano Pioli trovo (quasi) sempre accostato quel quid in più che, non me ne vogliate, ha senso zero; il normalizzatore, il potenziatore, mancano l’attore, il presentatore, il pittore, il cursore, l’ottimizzatore o qualunque altro termine che finisca in “ore”. Insomma, ne ho sentite di tutte; meno quel che Pioli rappresenta in questo momento e per i prossimi diciotto mesi: l’allenatore. Volutamente ho rimarcato diciotto mesi; è ora di smetterla, di piantarla, di finirla con questo orgasmo compulsivo da cambio tecnico. Ne sono passati nove (9) negli ultimi sei anni; no, dico, nove. Rimarcare il numero che forse non è chiaro ai più.

Ora, lungi da me pensare che fossero tutti dei geni della tattica, dei condottieri senza macchia e senza paura, degli innovatori incompresi. Ma parliamo di un numero fuori da ogni norma e regola, alla media di un allenatore e mezzo ogni anno. Folle. Le società vincenti partono sempre da un presupposto; comanda chi sta in panca e i giocatori fanno ciò che il tecnico chiede, senza musi lunghi, senza troppe chiacchiere e, soprattutto, senza lamentarsi con l’amico di turno che poi corre da qualcuno a riferire tutto quel che succede nello spogliatoio, minzioni comprese. E, fateci caso, raramente chi vince continua a sostituire la guida; perché uno staff affiatato, un gruppo coeso ed unito, una famiglia dove ognuno sta al posto che gli compete senza farla fuori dal vaso un momento si ed uno no è uno degli ingredienti fondamentali che portano a traguardi importanti. Poi, per carità, succede che sostituisci l’allenatore, che arriva il Gianni Invernizzi di turno e vinci il campionato; ma volete andare a scorrere i nomi, ad esempio, di quell’Inter e confrontarli con la rosa attuale? Perché i giocatori, sissignori i giocatori, se sono di prima fascia e si mettono in testa di poter vincere, vincono.

Mi è capitato di leggere della visita lampo del Cholo a Milano; subito, ovviamente, c’è stato un corri corri generale, alla caccia della dichiarazione che potesse confermare, in qualche modo, l’avvento del nuovo Messia sulla panchina nerazzurra. Ora, a parte il fatto che Simeone non ha confermato nulla, e ci mancava pure, si è limitato a ripetere ciò che tempo addietro, in epoche meno sospette, aveva serenamente confessato davanti a taccuini e telecamere; sì, un giorno mi piacerebbe allenare l’Inter. E perché, scusate, a quale allenatore non piacerebbe allenare la squadra coi colori del cielo e della notte? Uno dei dieci club più importanti e noti al mondo? Certo, troviamo poi gli Hodgson di turno che ti lasciano in mutande perché, sai, al Blackburn non si può dire di no (non me lo invento, a suo tempo se ne uscì veramente con questa fantastica affermazione, tanto intelligente che Moratti lo richiamò un po’ dopo, stendiamo un velo pietoso per cortesia), ma direi che quelli savi di mente trovano la sfida oltremodo stimolante. A meno che non li chiami l’Acquapozzillo (con tutto il rispetto per l’Acquapozzillo ovvio) al quale, chiaramente, non si può dire di no.

Sicché torniamo al mio cavallo di battaglia, al mio credo preferito; in campo vanno sempre in undici, il signore seduto in panchina non mette calzoncini e maglietta. Al massimo, leggasi il mistico nonché mitico Mazzone, sfodera la tuta societaria; anche se l’andazzo generale si orienta verso la classica giacca con annessa cravatta d’ordinanza. Che però non fa tanto campo di calcio. Ma, si sa, siamo in Italia ed ai dettami della moda non si può rinunciare. Ora la palla passa sì a Stefano Pioli, sarà lui a condurre la barca nerazzurra, ma con annessa compartecipazione diretta di quelli che giocano. Che ne hanno fatti fuori un paio in pochi mesi; e non due novellini; dapprima Roberto Mancini, che aveva vinto da solo più di quello che tutti i suoi calciatori messi insieme avessero mai soltanto pensato di poter vincere, cattivone e permaloso, poco incline al dialogo ma fomentatore di chissà quali litigi e per questo esautorato tra gli applausi scroscianti della folla già pronta ad esultare per il cambio, poi Frank De Boer, proveniente dalla terra dei tulipani e cacciato dopo ottantasei giorni, record per il variegato universo nerazzurro, che nemmeno il Moratti dei tempi belli era riuscito nell’impresa, purgato da uno spogliatoio retrivo alla corsa e ad una nuova maniera di importare calcio nel Bel Paese.

Sì, insomma, non giriamoci intorno; Roberto da Jesi è stato allontanato per presunti dissapori con la maggior parte dei calciatori nerazzurri (mah, a me non sembra proprio ma Thohir e Bolingbroke, notoriamente esperti del calcio italiano ed europeo, così hanno interpretato la questione), mentre a De Boer non è stato dato nemmeno il tempo materiale per cercare di trasmettere le proprie idee ad un gruppo di professionisti intenti a guardare ciascuno nel portafogli dell’altro, chiedendosi perché mai tizio guadagna più di caio e come mai io prendo meno di sempronio. Questo fino a poco tempo fa. Perché l’ultimo viaggio di Suning a Milano, al di là di casting più o meno noiosi e reclamizzati dalle solite gole profonde annidate in seno alla Società nerazzurra, riemerse dopo qualche anno di totale silenzio, ha iniziato a dare delle indicazioni su ciò che sarà. L’ex C.E.O. licenziato, con annessa ottima liquidazione, per una gestione del club giudicata non all’altezza; e, del resto, un uomo che proviene dal marketing (ripeto il concetto; ottimo incrementare il fatturato del Manchester United, prodotto che comunque si vende da solo in giro per il mondo. Il 12 o 13% in più degli anni passati all’Inter è poca cosa, dal momento che la voce marketing, prima di Thohir, era un neologismo in Corso Vittorio Emanuele; ergo, qualunque laureato nella materia e con un minimo di esperienza poteva ottenere lo stesso risultato… insomma, facciamo che non mi mancherà, ecco) non si è mai visto che mettesse becco nelle questioni di campo.

Kia, a questo giro, non è stato ascoltato, altrimenti non avremmo Pioli in panca. Thohir, dal canto suo, ha altri problemi attualmente e comunque sembra, ma sembra ripeto, leggermente depotenziato rispetto ad un passato nemmeno troppo remoto. Un nuovo amministratore, poco più che trentenne, proveniente direttamente dall’azienda e, insieme al figlio di Jindong, di stanza a Milano. L’idea, la sensazione insomma, è che qualcosa stia cambiando, per il bene della Società in primis e dei tifosi poi. Che troppe teste, lo abbiamo vissuto direttamente sulla nostra pelle, non portano a soluzioni ottimali.

Ora comunque c’è Pioli, per tornare al nocciolo della questione; che è simpatizzante nerazzurro da sempre (ebbene sì, anche gli allenatori hanno le loro preferenze), ha una famiglia nerazzurra, conosce perfettamente il giocattolo italiota, sa chi sono gli avversari ed i pericoli da evitare, naviga da anni nel campionato più tattico del mondo. E mi auguro possa dare una ventata di serenità che da troppo tempo ad Appiano non sanno cosa sia. Ma non cominciamo a menarla coi Simeone di turno per cortesia; l’allenatore è questo, il contratto dice diciotto mesi. Inizierei a fare il tifo perché Stefano da Parma raggiunga obiettivi interessanti; di quello che sarà, lo dico serenamente, non me ne frega un bel nulla. Amatela, sempre. E buona domenica a Voi!

Sezione: Editoriale / Data: Dom 13 novembre 2016 alle 00:00
Autore: Gabriele Borzillo / Twitter: @GBorzillo
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