Un'altra finale persa. L'Inter emula se stessa e replica il 3-2 di Colonia nella partita 'a vida o muerte' contro il Real Madrid di Zinedine Zidane. All'Estadio Alfredo Di Stefano di Valdebebas non c'è alcuna Coppa nella quale versare lacrime amare come dopo la derrota fatal inflitta dal Siviglia, ma resta quella sensazione di sentirsi come un imbucato nelle serate di gala della Champions, oltretutto vestendo l'abito sbagliato. Il percorso europeo di cui parla Conte, ormai cavallo di battaglia di ogni dichiarazione pubblica pre e post gara, sembra un viaggio verso l'ignoto con inutili deviazioni rispetto alla strada maestra intrapresa nella bolla tedesca, dove l'Uefa aveva organizzato le Final 8 di Europa League.

Altro livello, certo, in un contesto forse irripetibile, in cui comunque i nerazzurri erano riusciti a forgiare un'identità che li aveva spinti fino a un passo dalla gloria. La squadra più contiana dell'anomala annata 2019-2020 si è vista proprio nel mese di agosto, con il raggiungimento della tanto sbandierata credibilità, al netto di zero trofei messi in bacheca. Un dettaglio, quest'ultimo, se rapportato all'ultima porzione di storia della Beneamata su cui si è deciso di lavorare ormai da un anno e mezzo, all'atto della proclamazione di Conte come erede del troppo bistrattato Luciano Spalletti, liquidato come tecnico da piazzamento. Al suo posto il vincitore seriale di Lecce che, dopo un giro di lavatrice sulla panchina milanese, si è scoperto improvvisamente uomo da progetto a lungo termine che ha bisogno di tempo per portare a casa la posta in palio massima. Nel giro di 14 mesi, Conte è passato dal rosicare per un pari in amichevole al predicare il Vangelo dei cosiddetti 'giochisti' che prediligono una vittoria per 5-4 a un più italico 1-0. Una rivoluzione copernicana nel pensiero di un uomo ossessionato dalla vittoria, folgorato tra le mura di Villa Bellini dal concetto di bellezza del gioco come unica via per raggiungere il risultato. Discorso che fa a pugni non solo con la sua storia personale ma anche con il mercato imbastito per colmare il gap dalle prime della classe in Italia e in Europa: gli acquisti degli scafati Arturo Vidal e Aleksander Kolarov, oltre al giovane ma rodato Achraf Hakimi, suggeriscono che le scorciatoie per arrivare con le braccia alzate al traguardo Suning le ha prese sul serio. E non senza consultare il suo condottiero in campo. Che, non si sa per quale motivo, ha pensato che con questi innesti la sua squadra sarebbe arrivata a dominare tutti o quasi gli avversari sulla sua strada.

L'effetto prodotto, oltre al dato oggettivo di risultati scadenti che ora relegano la squadra al sesto posto in Serie A e la mettono spalle al muro nel gironcino continentale, è quello di un maggior controllo della palla grazie a un baricentro più alto che per contraltare espone il fianco agli attacchi nemici che arrivano puntualmente a colpire con tiri ad alta percentuale di realizzazione. Quindici gol al passivo in nove gare, anche ponendo di avere dei cecchini in attacco, invitano a pensare che questo atteggiamento non porti i suoi dividendi: il plus/minus è altamente negativo per diversi ordini di ragioni, prima tra tutte le caratteristiche dei giocatori a disposizione. I difensori sono troppo lenti per difendere con 50 metri di campo alle spalle; i centrocampisti, perlopiù assaltatori abili senza palla, non sono in grado di trasmettere velocemente il pensiero agli attaccanti, su cui si regge completamente il peso dal fatturato realizzativo. Lukaku e Lautaro, anche viaggiando ai ritmi clamorosi dell'anno scorso, non possono garantire il numero di reti necessarie per portare a casa traguardi di prestigio. Sanchez è un'incognita in zona calda prima ancora che a livello fisico; su Andrea Pinamonti non si può fare affidamento per ovvie ragioni, mentre Ivan Perisic rimane sempre un adattato.

Ecco, allora, che l'autorità, soprattutto territoriale, di cui Conte si vanta in tv si traduce con una sterilità di fondo in rapporto al volume di occasioni create. Questo fa dell'Inter una creatura ibrida che ricerca lo spettacolo senza poterlo offrire e in più subisce la beffa del punteggio negativo. E qui che, dal nulla, lo stesso Conte tira in ballo il discorso della mentalità, a suo giudizio migliorata rispetto a un anno fa. "Sono molto più soddisfatto oggi rispetto a quanto lo fossi l'anno scorso dopo le gare con Slavia, Dortmund e Barça", le parole pronunciate dopo lo sciagurato 3-2 contro il Madrid, dipinto come una corazzata tralasciando scientificamente i suoi problemi di assetto tattico già palesati con Shakhtar e Gladbach. La nuova filosofia di respiro internazionale ha cancellato i momenti della partita vissuti in perenne sofferenza (il 2° tempo di Dortmund e i 40' finali di Barcellona) ma non ha portato in dote nemmeno lontanamente i picchi registrati nella passata edizione della Champions. Mettendo a paragone il ko del Camp Nou e quello di martedì la crescita esponenziale è tutt'altro che netta come sostiene Conte. Il percorso lungo un anno partito da Barcellona e arrivato a Madrid rischia fortemente di essere lo stesso delle ultime due stagioni: il cartello 'retrocessione in Europa League' è lì in bella vista, lontano solo tre giornate. Duecentosettanta minuti in cui la meta è più importante del viaggio stesso. Ora non è il momento di godersi il paesaggio facendo un giro panoramico, serve imboccare la strada vecchia, quella giusta, per approdare finalmente agli ottavi di finale. 

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Sezione: Editoriale / Data: Gio 05 novembre 2020 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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