Da Siena all'Inter, in quindici anni di carriera in panchina, Antonio Conte ha vissuto diverse vite da allenatore, più di quelle che tanti colleghi non sperimentano in un'intera esistenza. Ha fatto il vice, ruolo che gli è stato stretto sin da subito ('Non dovrò solo mettere i birilli, vero?', chiedeva preoccupato a Luigi De Canio il primo giorno di allenamenti), poi il cursus honorum dalla Serie B alla Juventus fino ad arrivare a occupare l'ambito posto di selezionatore della Nazionale maggiore in un Paese di commissari tecnici. L'erasmus a Londra, dove al Chelsea ha interpretato il ruolo di manager sui generis con un proprietario particolare come Roman Abramovich che il potere decisionale sul mercato non l'ha concesso neanche a José Mourinho. Nel 2018, quindi, si prende il meritato anno sabbatico dopo aver "dimostrato di essere un vincitore seriale" anche all'estero, portando a casa una Premier League, alias il campionato del mondo degli allenatori, e la prestigiosissima FA Cup, il trofeo di calcio più antico del mondo. Una pausa meritata, di riflessione, nella quale non sono mancati gli incentivi per per tornare in pista dopo pochi mesi: con la coerenza di una scelta inusuale per un uomo di campo in attività (l'altro esempio più celebre è Guardiola), King Antonio ha declinato, per motivi diversi, la corte di Real Madrid e Paris Saint-Germain, due club abituati a vincere almeno un trofeo a stagione. I motivi del 'gran rifiuto' li ha spiegati il diretto interessato: "Credo che per un allenatore del mio livello sia meglio aspettare l’inizio di una nuova stagione e non prendere treni in corsa, come poteva essere quello del Real Madrid", le sue parole a margine della cerimonia della 'Panchina d'oro' del 12 novembre 2018. Il no ai milioni parigini, presumibilmente per prendere l'eredità di Emery due anni fa, è una confidenza fatta da Conte al collega dell'Equipe, ma off-the-record e di cui si ignorano i motivi ufficiali.

L'unica cosa certa in questa vicenda è che, a un certo punto del romanzo, è sbocciata l'unione di intenti a 360 gradi con l'Inter. E non poteva essere altrimenti guardando al passato del tecnico leccese, che ha deciso di entrare nella ribattezzata 'centrifuga' trapattoniana pur avendo il Dna juventino. Perché Conte è un uomo che ha vissuto più volte, ma da quando indossa giacca e cravatta ha conservato la sua identità di professionista che va oltre i colori e che tifa il suo lavoro. Il che alla fine lo porta a essere il primo fan di quella stessa squadra: "Io metterò tutto me stesso per l'Inter perché quando sposo una causa sono il primo tifoso di quella squadra, che oggi è l’Inter. Oggi non dormo per l'Inter, questo è innegabile: è successo col Chelsea, prima con la Nazionale e la Juve. Ci metto tutto me stesso, io non devo essere accettato da qualcuno, voglio che la gente capisca - anche chi sta all’opposizione - che do tutto me stesso e oggi sono il primo tifoso e sarà così finché ne sarò allenatore. Poi anche in futuro sarò tifoso delle squadre che ho allenato", aveva detto dopo il primo derby di Milano vinto.

Conte, dopo pochi mesi a Milano senza aver messo ancora nulla di scintillante in bacheca, ha convinto anche gli scettici illustri simbolo dell'interismo, Moratti, Materazzi e Cordoba solo per citarne alcuni. Non ha commesso l'errore che a suo tempo commise Lippi, ed era facile pronosticarlo dopo che è riuscito nell'ardua impresa di eliminare Mou dal cuore dei tifosi del Chelsea, che per seguire il loro nuovo Messia hanno urlato 'Giuda' a quello che li ha rimessi di nuovo sulla mappa del calcio inglese. "Vivo il mio lavoro in modo intenso. A volte mostro la mia passione e voglio condividere la mia felicità con i tifosi", ha raccontato Conte martedì scorso, nel giorno delle celebrazioni del terzo anniversario della vittoria in Premier League. Lo ha fatto da casa, in collegamento con Sky Sports, chiuso nel bunker di casa sua da dove per due mesi ha seguito il lavoro dei suoi giocatori grazie a 'Zoom'. Da qualche giorno a questa parte, ancora a distanza di sicurezza, è tornato a guardare Lukaku e compagni che corrono ad Appiano senza la mediazione delle tecnologia ma solo con attraverso i suoi occhi da maniaco del dettaglio. 

L'ultima esperienza della sua carriera in ordine cronologico, sicuramente la più inusuale dai tempi in cui poteva allenare il suo gruppo per due mesi l'anno in tutto per le ovvie ragioni imposte dal calendario internazionale. Un tempo il problema erano gli stage, osteggiati dai top club, oggi il guaio è ben più grosso e si chiama Covid-19. Una pandemia che ha paralizzato il mondo del calcio e ha spezzato una stagione che chissà mai se ricomincerà. Ma non la fame di vittorie di Conte, semmai accelerata da questo stop. Lo scenario di non vincere nulla dopo anni costellati da trionfi fa perdere il sonno al protagonista di questa storia, più che mai convinto che non manchi così tanto per riscrivere la parola 'coppa' nel vocabolario della Beneamata. Il digiuno dal campo ha aumentato la sua voracità di successi, concetto che non fa a pugni col progetto di Suning di tornare ai vertici gradualmente mixando giovani talenti a giocatori fatti e finiti. "Chi ha tempo non aspetti tempo" è la massima preferita di Conte, che la vacanza lunga se l'è già presa due anni fa per tornare più forte di prima. Coronavirus permettendo, Conte ha già fatto capire in pochi mesi che bisogna abbassare la testa e pedalare veloci per arrivare primi al traguardo, davanti al club che domina tra i confini nazionali da otto anni. Sei punti potenziali di distacco (i due scontri diretti) dalla capolista Juve in tre quarti di campionato è un'andatura folle, sopra la media. Che va comunque migliorata con nuovi innesti in vista della prossima stagione, al netto di uscite più o meno inevitabili (Lautaro, Icardi, Perisic e Nainggolan). Serve gente abituata a lottare per ottenere i massimi risultati, tipo Vidal e Cavani. Serve gente all'altezza di Conte e alla sua voglia matta di ribaltare i pronostici ('Sei con lui o contro di lui' ha scritto nel suo libro Giorgio Chellini).

Sì, perché l'Inter, dal Triplete in poi, è diventata fatalmente una squadra da piazzamento, senza ambizioni rispondenti alla sua storia. Ora è la sfavorita di lusso, che ha almeno l'1% di possibilità di riuscita. Un discorso accettabile al primo anno, peraltro anomalo per i famigerati motivi che stanno condizionando le nostre vite, ma già stridente con la filosofia del tecnico leccese se si guarda alla prossima annata. Quella del test vero e proprio, quando il condottiero nerazzurro verrà messo a paragone con i totem Roberto Mancini e José Mourinho. "Mancini ha vinto tanto con l'Inter, mi auguro di fare quello che ha fatto lui all'Inter, sarebbe già tanto per me", aveva detto Conte dopo il pazzo 4-2 in rimonta imposto al Milan. Quella partita che, nei pensieri di Conte, ha trasformato la parola scudetto da tabù a sogno. Poi il brusco risveglio con tre sconfitte e il pallone che non rotola. Poco male perché non servirà vedere l'eventuale epilogo di questa stagione per misurare la nuova aspriazione dell'Inter che sa di antico. In questo senso si è raggiunta una nuova normalità, ora occorre che anche il resto del mondo si allinei così da poter toccare con mano il Conte effect sulla storia della Beneamata

Sezione: Editoriale / Data: Gio 14 maggio 2020 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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