Terza incomoda. Questo lo status raggiunto in classifica dall'Inter dopo ventiquattro giornate di campionato, in seguito alla vittoria panacea ottenuta ai danni del Bologna che ha mitigato solo in parte i tormenti dell'ambiente nerazzurro. Icardi e compagni, dopo due mesi di ricovero per pareggite acuta mista a sconfitte, ora restano in uno stato di convalescenza ancora pericoloso che i valori numerici della graduatoria tendono a sottostimare. L'occupazione provvisoria, non certamente abusiva, dell'ultimo gradino del podio della Serie A da parte della squadra di Luciano Spalletti sa tanto di mezzo gaudio per il mal comune che la unisce ai destini imperscrutabili delle due romane impegnate nella bagarre per un posto in Champions League: il su e giù improvviso sopra il rollercoaster della corsa all'Europa che conta non ha punti di riferimento chiari, se non la discontinuità nei risultati delle parti in causa che fanno da contraltare alla puntualità con la quale le stesse raccoglievano punti a grappoli fino al mese di dicembre. Detto della Lazio mai così in caduta libera sotto la guida di Simone Inzaghi e della Roma che è risorta parzialmente grazie alla profondità di una rosa in parte ancora inespressa per la gestione così e così di Eusebio Di Francesco, l'Inter è quella che è stata più restia a cambiare pelle fino alla prova contraria di domenica scorsa quando il condottiero della Beneamata ha pensato che il detto 'squadra che vince non si cambia' fosse ormai fuori moda a San Siro da ormai due mesi.
Puntare sempre e solo sulle stesse undici-dodici pedine per un arco temporale molto ampio, anche con soluzioni tattiche ormai prevedibili prima ancora della loro esecuzione, si è rivelato controproducente alla lunga. E a pensarci bene, la metamorfosi ordinata dal tecnico di Certaldo non è nata che da una contingenza casuale, praticamente accidentale: non fosse stato per l'infortunio di Mauro Icardi, intoccabile per eccellenza, nessuno avrebbe mai visto i due gol di Eder partendo dal via, né tantomeno il piano strategico singolare disegnato per battersi a duello con Donadoni. Arrivare a progettare un 4-3-1-2 all'alba di febbraio è senz'altro figlio di una improvvisazione dettata da una lavoro sul mercato riuscito solo a metà. Costruire un rombo di centrocampo quando hai la miseria di cinque centrocampisti in rosa è una mossa che assomiglia da vicino a quella della disperazione, un'azione volta a riscrivere una sceneggiatura con un turning point imprevedibile anche per gli attori che lo stanno mettendo in atto. L'elettroshock del gol di Eder, nato sull'asse inedito Karamoh-Brozovic, è durato giusto il tempo di una novità della quale ci si stanca presto: per la precisione 23 minuti, prima del graffio del sempreverde Palacio, spettro di un passato senza gloria che ritorna con prepotenza a incutere terrore.
Quando si decide di abbandonare la strada vecchia per quella nuova, non è un mistero, i meccanismi non sono così scontati: non fa eccezione la versione a diamante della mediana interista, dove Perisic e Vecino sono ancora ben lontani dall'apprendere i movimenti simultanei che dovrebbero compiere in armonia con i rispettivi terzini e l'attaccante di turno che viene in appoggio. Per non parlare di Borja Valero, scolastico al massimo nella gestione del pallone davanti alla sua difesa e penalizzato quando deve stazionare in una singola zolla di campo, a maggior ragione se non protetto da uno scudiero al suo fianco. La rinuncia al 4-2-3-1, in ultima ratio, è la decisione necessaria presa da quel demiurgo che in altri lidi ha elevato quel modulo a livelli di efficacia ed estetica sontuose. In pratica, Spalletti, dopo aver capito sin dapprincipio di non poter riuscire nell'impresa titanica di trasformare Joao Mario o Brozovic nemmeno nel più lontano surrogato di Nainggolan, ha realizzato amaramente di non riuscire più a far volare la sua filosofia di intendere il gioco sulle ali. Tarpandole improvvisamente in una soleggiata ma fredda giornata di mezzo inverno: Candreva spedito in panchina dopo la bocciatura arrivata tra primo e secondo tempo con la Spal, e Perisic relegato al ruolo di interno di centrocampo dicono molto sul tema. Se per l'italiano un turno di riposo è anche comprensibile dopo le fatiche di un campionato trascorso a tutta velocità sulla fascia, l'arretramento del raggio d'azione del croato per coprire il ruolo di mezzala (ala dimezzata, appunto) è un chiaro declassamento dello stesso da personaggio principale a coprotagonista. Spalletti sostiene che quello di mezzala per Perisic “sarà il suo futuro ruolo”, intanto è una semplice rinuncia indolore dal punto di vista offensivo a quello che l'ex Wolfsburg ha disimparato a fare: saltare l'uomo con il movimento trademark 'destro-sinistro in rapidità' a guadagnare la linea di fondo e mettere il cross. Una delle poche armi nella faretra dell'Inter degli albori di stagione, assieme ai traversoni in corsa dalla trequarti di Candreva per Icardi.
Ebbene, col Bologna qualsiasi schema suddetto sarebbe stato comunque inapplicabile, visto che Candreva è stato panchinato e Icardi era in tribuna per infortunio; quindi Lucio avrà pensato di far saltare il banco con il funambolico Karamoh. L'unico assieme all'ultimo arrivato Rafinha (la rivoluzione passerà dai suoi piedi e dal suo ginocchio) a parlare una lingua diversa nella recita domenicale di San Siro, la lingua del calcio che è di facile comprensione solo quando si dispiega davanti agli occhi degli astanti. Che anche dopo diversi anni a pane e acqua sanno riconoscere e apprezzare ancora il sapore del caviale e dello champagne. A patto che nessun Brozovic di turno glielo faccia andare per traverso a suon di fischi.
Quel che rimane dopo un successo con tanti strascichi è che a due giorni dalla delicata e ostica sfida col Genoa - al netto di infortuni, recuperi lampo, fasi di forma scadenti e sorprese tattiche – Spalletti dovrà mettere giocoforza mano al suo undici, magari spiegando le scelte canticchiando nello spogliatoio: "Come si cambia per non morire".
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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