Ogni anno sembra di toccare livelli minimi inimmaginabili e si pensa che peggio di così non si possa francamente andare, e ogni anno arriva quel momento della stagione nel quale l’Inter raschia il fondo del barile arrivando sempre più in basso. Se perlomeno dicembre era stato chiuso in maniera degna con l’importantissimo successo sul Napoli e i tre punti esterni colti a Empoli, il mese di gennaio è iniziato in maniera drammatica, con un pareggio contro il Sassuolo e due sconfitte decisamente pesanti contro il Torino e in casa contro il Bologna, formazione che non vinceva in campionato dallo scorso settembre e che era reduce da una pesantissima scoppola interna rimediata contro il Frosinone. In mezzo, la delusione per l’eliminazione dalla Coppa Italia contro la Lazio, un potenziale obiettivo riacciuffato per i capelli al 125esimo con un rigore e poi scappato via sempre a causa di un rigore.
Contro l’avversario potenzialmente migliore per dare una spazzata comunque necessaria alle prime nuvole di crisi, l’Inter riesce invece a proporre quella che probabilmente è stata la sua peggiore versione degli ultimi tempi: impossibile anche concedere la tara delle assenze importanti di fronte ad una prestazione così imbarazzante, vuota di idee ma prima ancora di una qualsivoglia logica, dove sbagli al pronti-via un gol che in ben altre circostanze ti riesce ad occhi bendati e ti dai la prima zappa sui piedi da solo finendo per andare subito in corto circuito. Il tutto di fronte ad un San Siro che ribolle di rabbia, che già al decimo minuto comincia a far sentire la propria disapprovazione rendendo ancora più kafkiana la situazione, con un Bologna che forse non crede a quanto sta succedendo e finisce per trarne più vantaggi di quanto si potesse opinare. Basta ai felsinei difendere il gol di Federico Santander e vedere evaporare gli anarchici e poco convinti tentativi di reazione dei nerazzurri per portare a casa i tre punti e festeggiare dando le spalle alla tempesta di fuoco caduta sulle teste di Mauro Icardi e compagni. Una miscela atomica tale che mancava solo un Enola Gay a sorvolare San Siro.
E ovviamente, il primo a finire alla gogna è il personaggio che come sempre finisce abbandonato in trincea col nemico che avanza a fuoco spianato: l’allenatore. Allenatore che mai come nell’infausta sera di domenica si è sentito solo contro tutto il mondo. La faccia di Luciano Spalletti, impietosamente colta dalle telecamere, al triplice fischio dell’arbitro Pasqua, era emblematica dello sconforto totale che ha assalito il tecnico di Certaldo dopo quell’inusitato ko. Sconforto accentuato anche nella conferenza stampa del post-partita dal tono delle risposte arrendevole, quasi lacrimoso, di sicuro non quello cui ha abituato tutti. Sono giorni pesanti per Spalletti, ancor più di quelli del periodo di crisi della scorsa stagione: gli si sta ritorcendo tutto contro, in primis il mancato rendimento del suo ‘eletto’ Radja Nainggolan, l’uomo voluto a tutti i costi per garantire il salto di qualità e che invece è ancora lontano dall’essere anche solo l’ombra del giocatore che si è fatto ammirare a Roma, il tutto condito dal contemporaneo exploit di quel Nicolò Zaniolo che grazie ad una serie di circostanze favorevoli ha mostrato le sue effettive qualità di alto livello e dato adito a tutti gli addetti ai lavori di far parlare bene di sé, salvando parzialmente l’operato estivo del ds romanista Monchi per il resto giudicato con toni anche pesantemente negativi dall’ambiente giallorosso, e scagliare macigni anche fin troppo pesanti sulle teste degli uomini mercato nerazzurri. E poco importa che, malgrado tutto, il belga tutto sommato provi a sacrificarsi, a trascinare e se è il caso anche a strigliare e richiamare i compagni, compiti che in genere dovrebbero toccare al capitano…
Il resto della gragnuola è storia di questi giorni: i casi di mercato, veri come quello di Ivan Perisic del quale il mister pare non aver gradito la gestione perlomeno a livelli mediatici, a quelli presunti relativi ad altri giocatori, fino all’incombere minaccioso di nomi di altri allenatori pronti a piombare sul suo trono, al punto che qualcuno è stato visto svolazzante nel centro di Milano proiettando un’ombra alquanto grossa visto che basta consultare qualunque servizio di mappe online per capire che tra Via Montenapoleone e Corso Vittorio Emanuele c’è una distanza in linea d’aria di 4-500 metri, che non saranno tantissimi ma nemmeno così pochi da rendere giustificabili eventuali congetture come quelle che si sono sentite in questi giorni, in barba al sacrosanto diritto di ogni essere umano di poter circolare liberamente in ogni dove gli sia concesso.
È un Luciano Spalletti, quindi, che da qui in avanti, conoscendo l’andazzo, o riesce a riprendere il suo gruppo per la collottola perché, diciamolo, addossare le responsabilità solo all’allenatore è un alibi troppo facile da usare, e rimette il treno in carreggiata, oppure è destinato a rimanere sulla graticola per tutto il resto della stagione, se contano qualcosa le parole di Beppe Marotta che ha speso praticamente l’intera serata di lunedì a ribadire che il tecnico può dormire tra due guanciali, che nella sua lunga carriera di dirigente sportivo non ha mai esonerato alcun allenatore, che conta sulla sua esperienza e sulle sue qualità. Fa bene Marotta a provare a infondere fiducia a Spalletti in questo momento assai delicato, ma al tempo stesso fa bene a ribadire che comunque ci sono degli obiettivi da raggiungere, in base ai quali poi saranno fatte le valutazioni opportune, e che comunque in casa Inter va migliorata la cultura della vittoria; discorso legittimo ma che, a voler essere un po’ malpensanti, è facile sentire pronunciare dalla bocca di uno che arriva da un pianeta come quello della Juventus, più difficile implementare in un ambiente peculiare come l’Inter.
Spalletti, quindi, a quanto pare può stare tranquillo, visto che nessuno, a meno di cataclismi clamorosi, all’interno della dirigenza nerazzurra pare ponderare un cambio della guardia a stagione in corso, in attesa magari di capire come finirà l’annata. Ma nonostante ciò, c’è chi all’interno della tifoseria ha già emesso la sentenza a colpi di hashtag e vorrebbe vedere messo alla porta Lucio, col pensiero che ormai abbia perso definitivamente il controllo della barca e nel timore che la situazione possa ulteriormente precipitare, in preda a quel fatalismo che ormai ha connotato in maniera quasi irreversibile tutto l’ambiente. E se proprio non fosse possibile arrivare sin da subito al grande nome, allora ecco emergere una nuova suggestione collettiva: quella di affidare la panchina ad una figura storica, uno dei cavalieri che fecero l’impresa nel 2010, e in nome in cima alla lista sarebbe quello di Esteban Cambiasso.
Un nome facile da farsi, quello del Cuchu, del quale si è sempre detto che fare l’allenatore era nel suo destino quando ancora scorazzava e dilagava nel centrocampo nerazzurro; un nome che evoca indubbiamente grandi ricordi, un personaggio che a detta di qualcuno sarebbe l’ideale perché conosce alla perfezione l’ambiente e saprebbe dare le giuste frustrate al gruppo instillando i valori della maglia. Tutti pensieri affascinanti, per carità, ma poi occorre fermarsi un attimo e porsi questa domanda: cui prodest? Davvero sarebbe opportuno per Cambiasso gettarsi a capofitto in un’avventura così ad alto rischio, lui che sin qui vanta in curriculum un’esperienza non fortunatissima da assistente del ct della Colombia José Pekerman al Mondiale? Che incentivo potrebbe avere dall’iniziare una carriera da tecnico accettando una sfida dove gli ostacoli sono sempre dietro l’angolo? Ma soprattutto, parliamo dello stesso Cambiasso finito anche lui, negli ultimi anni della carriera, nel giogo delle feroci critiche e dei fischi da stadio al punto tale da indurlo alle lacrime, alfiere dell’Inter di quell’allenatore che in tanti ancora sognano ma che poco prima dell’impresa del 2010 fu bollato sonoramente dopo una sconfitta con l’epiteto di ‘bluff lusitano’ con tanto di striscione dedicato?
Questo per dire che i giudizi emessi sull’onda emotiva dei risultati difficilmente portano benefici sul medio-lungo termine, quelli ai quali l’Inter ambisce concretamente e per i quali occorre un lavoro che, piaccia o no, va distribuito nel tempo senza cedere alla tentazione di mandare all’aria tutto quanto non appena la situazione si fa anche un po’ più complicata di quanto messo in preventivo. Spalletti si è invischiato in questa situazione insieme a tutta la banda, e deve stare alla sua bravura e alla volontà di chi è ai suoi ordini uscire da questo pantano, approfittando del margine che la classifica comunque concede e del fatto che alle spalle dei nerazzurri la lotta è larghissima e sul terreno inevitabilmente qualcuno lascerà qualcosa. Bello, nei momenti difficili, lasciarsi andare ai bei ricordi o magari cavalcarli sperando in un po' di attenzione o qualche vendità in più; ma come diceva un tale risultante all'anagrafe come Robert Allen Zimmermann, dei ricordi bisogna avere cura, perché non si potranno mai rivivere di nuovo.
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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