Ero solo una bambina quando iniziai a seguire il calcio. Era più forte di me: tra un cartone animato e una partita avrei scelto sempre e comunque la seconda. Tutto quello che so sul calcio e sull’Inter me l’ha spiegato mio padre, tra una partita e l’altra: mi ha insegnato le regole del gioco, mi ha raccontato la storia del club, mi ha parlato dei suoi giocatori preferiti, dei più forti, della bandiere ma anche dei flop più clamorosi. A nove anni sapevo già riconoscere un fuorigioco e sapevo la formazione dell’Inter a memoria. Guardavo l’Inter di Ronaldo, il Fenomeno, che bastava da solo a insegnarmi cosa fosse il calcio. Sapevo tutto di quel mondo. Tuttavia, non credo di essere diventata tifosa semplicemente perché capivo e conoscevo ogni dettaglio: quello che mi ha fatto innamorare del mondo del calcio era lo sguardo di mio padre durante una partita. Al fischio d’inizio era come se tutto il mondo intorno svanisse: sul suo volto appariva una sana tensione. Era un misto tra adrenalina, timore e emozione e io venivo catturata da quei 90 minuti. Per chi ama il calcio in modo semplice e onesto, il momento della partita è sacro: è il momento in cui le chiacchiere finiscono ed è solo il campo che decide, è un momento intoccabile. O, per lo meno, così ho sempre creduto fin da piccola ed è così che mi ha insegnato mio padre.
La storia di questi anni invece mi ha mostrato qualcosa di totalmente diverso: non avrei mai immaginato che, crescendo, avrei dovuto imparare cosa fosse Calciopoli e che avrei dovuto capire che una partita si sarebbe potuta giocare non con il pallone ma con truffe, telefonate, soldi e ricatti. Nel frattempo abbiamo imparato, nostro malgrado, a passare le giornate tentando di barcamenarci tra il calcio giocato e il polverone che invece si è alzato dal 2006 e che continua tutt’ora a portarci i suoi effetti. Ultimo in ordine cronologico è la richiesta di risarcimento da parte della Juventus nei confronti della Figc e in qualche modo anche dell’Inter, arrivata proprio nel giorno in cui veniva assegnato il Premio Internazionale Giacinto Facchetti (casualità o circostanza ben architettata non è dato sapere). Al di là del giudizio che si può esprimere nei confronti di questa scelta legale del club bianconero, che non sarà di sicuro l’ultima, è palese a tutti che Calciopoli non si concluderà quando finalmente avremo una sentenza definitiva del processo, ma rimarrà una questione aperta per anni, forse per sempre. Questa brutta parentesi ci ha lasciato un’eredità difficile con cui convivere: i fantasmi del sospetto continuano ad aleggiare sulle nostre teste e sarà difficile scacciarli, a maggior ragione quando certi personaggi coinvolti non hanno il buongusto di ammettere le loro responsabilità e non sono in grado di giustificare le proprie parole e azioni, ma preferiscono infangare chi non c’è più e non può difendersi. In questo modo lo scandalo continua sotto i nostri occhi, ogni giorno.
Se il sistema funziona così, anche noi, tifosi e persone comuni, dovremmo chiedere un risarcimento a chi, in questi anni, ha permesso che comprassimo un biglietto o un abbonamento tv per vedere partite che in qualche modo erano già state decise a tavolino. Dovremmo sentirci tutti truffati. Nessuno ci ha ancora spiegato perché sia successo, nessuno ci ha spiegato perché abbiano osato intaccare il nostro momento speciale, i nostri 90 minuti. Soprattutto, nessuno ci ha chiesto scusa per averci preso in giro e per aver voluto farci credere che in Calciopoli fossero tutti coinvolti e quindi tutti giustificati ad agire, come se più persone immischiate potessero diminuire la colpa dei singoli. I responsabili non hanno ancora avuto il coraggio di chiederci scusa per aver distrutto la credibilità del nostro calcio, lo stesso calcio che altri papà vorranno spiegare ai propri figli, proprio come fece il mio quando ero piccola. Ed è solo tornando a quel momento che riesco ancora a credere in questo sport, perché nonostante tutto c’è una fiducia di base, difficile da spiegare, che mi spinge a vederlo ancora con gli stessi occhi, sinceri e onesti, di quando ero bambina. Ricordo i miei nove anni, quando non vedevo l’ora del week end per sedermi sul divano e stringere tra le mani la mia prima sciarpa nerazzurra, con il cuore che mi scoppiava nel petto dall’emozione, quasi credessi che una partita avrebbe potuto cambiare il mondo. Ricordo semplicemente il momento in cui capii che mi ero innamorata del calcio e dell'Inter. E mi resi conto che niente e nessuno (neanche una Calciopoli qualsiasi) avrebbe mai potuto farmi cambiare idea.
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