Il comico e intersita doc Paolo Rossi ha voluto scrivere una lettera a cuore aperto a Erick Thohir, comunicando il suo pensiero sul mondo nerazzurro attraverso le colonne della Gazzetta dello Sport. Un testo illumminante e commovente.

"La serata della finale di Champions League, il 22 maggio 2010, io recitavo al Piccolo. Con clamore sui giornali anticipai lo spettacolo di un’ora e mezza per poter fare vedere al pubblico la finale di Madrid. In realtà anche io ero molto coinvolto da questa cosa. Però avevo timore, perché il 5 maggio 2002 ero proprio al Piccolo. Allora, però, ritardai lo spettacolo di mezz’ora perché non riuscivo a riprendermi. Grande fu lo stupore perché in sala la metà della gente aveva sciarpe e bandiere per andare poi in Piazza Duomo a vedersi Inter-Bayern sul maxi schermo. Guardai la finale nei camerini grazie a una piccola tv gentilmente fornita dall’organizzatore. Fu una serata bellissima e indecifrabile al tempo stesso. Camminavo per le vie di Milano e avevo una strana sensazione. Vedevo i ragazzi di 17-18 anni fare festa, io era più di 40 anni che aspettavo... Ci rimasi quasi male. Camminavo da solo. Andai fino in Piazza Duomo a vedere, in disparte, la gente che impazziva. Poi mi diressi verso casa, in Porta Romana. Eppure sentivo che stavo dimenticando qualcosa. 

Soprassalto - Alle 6 del mattino mi svegliai di soprassalto. Mi stavo dimenticando una promessa fatta a mia mamma, mancata qualche anno prima. Mi aveva chiesto: «Se dovesse capitarmi qualcosa e l’Inter dovesse vincere la Champions, ricordati di portarmi un ricordo di quella serata». Mia mamma era più di un ultras. L’ultima partita che vide a San Siro fu un Inter-Borussia Moenchengladbach di coppa Uefa. Era con me ai popolari. A un certo punto la vidi schiaffeggiare un tedesco. «Mi ha insultato» si giustificò. E io: «Ma se non conosci nemmeno la sua lingua…». Da quel giorno, quando giocava l’Inter, l’ho sempre tenuta a casa. Soffriva troppo allo stadio. Con il ricordo di quella promessa, alle otto uscii di casa per andare da lei. Per strada c’erano tutti i residui dei festeggiamenti. I ragazzini andavano in giro con la sciarpa nerazzurra al collo. Ma mi colpì una figura, in particolare. All’orizzonte mi apparve un ragazzo, barcollante, con bandiera e sciarpa, visibilmente euforico. Si avvicinò. E, dopo avermi riconosciuto, gridò: «Campioni! Campioni! Dove sono gli altri?». «La festa è finita» gli risposi. E gli domandai: «Hai visto baracchini che vendono bandiere, sciarpe o gadget dell’Inter? Perché ho fatto una promessa a una persona che non c’è più». Lui si sfilò la sciarpa dal collo: «Questa è stata a Madrid, sono appena tornato. E’ tua!». 

A Lambrate - Con la sciarpa al collo, andai al cimitero di Lambrate. Comprai delle margherite e la nascosi dietro ai fiori, non mi sembrava opportuno entrare in quel luogo come allo stadio. Mantenni la promessa fatta a mia mamma. Legai la sciarpa intorno alla sua foto. Ero imbarazzato. Mentre mi alzai, alla mia destra vidi un signore che stava piantando una bandiera dell’Inter di fronte a una tomba. Mi sorrise. C’era tanto nerazzurro al cimitero e il mio imbarazzo iniziale si trasformò in una risata quando vidi una Coppa dei Campioni gonfiabile attaccata all’ala di un angelo di un monumento funebre. Per me quel giorno in qualche modo è stato l’apice del calcio romantico. Oggi mi fermo a guardare i ragazzini che giocano proprio con quello spirito. Moratti questa storia la conosce già. Ora spero che il signor Thohir la legga per capire che cosa vuol dire essere interisti. Perché se l’atletica è uno sport, il calcio è una metafora della vita".

Sezione: News / Data: Sab 18 gennaio 2014 alle 13:16 / Fonte: Gazzetta dello Sport
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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