"Del ventesimo scudetto dell’Inter resterà nella memoria la bellezza del gioco, secondo molti tifosi “il migliore di sempre”, secondo noi — che una decina ne ricordiamo e quelli della Grande Inter li abbiamo visti da bambini e rivisti nei documentari — quasi anche". Così Paolo Condò presenta dalle colonne de La Repubblica il trionfo nerazzurro di ieri. Dopo un'analisi storica tra il concetto di bellezza spesso applicato al Milan contro quello di efficacia che ha contraddistinto le ere vincenti nerazzurre, Condò evidenzia il salto di qualità: "Stentiamo a ricordare un’edizione dell’Inter nella quale le abilità dei singoli si siano fuse altrettanto bene in un gioco nel quale l’intelligenza collettiva permette a ciascuno di trovarsi a proprio agio in qualsiasi zona del campo, compresa la più lontana dalla posizione originale. Ci sono stati momenti, nel corso di questa stagione, in cui la linea dei tre difensori aveva superato in blocco quella dei tre centrocampisti centrali, e impostava la manovra con la naturalezza di chi sembra nato per farlo. La famosa costruzione dal basso, ultima frontiera della lite calcistica, è stata assemblata con un sistema di pesi e contrappesi da orologio svizzero che porta i suoi esecutori a svilupparla al volo — a un tocco, perché è questo uno dei misconosciuti segreti del “giocar bene” — risalendo il campo a velocità supersonica nelle zone svuotate da avversari". 

La rivale dalla quale c'è stato principalmente da guardarsi per un breve periodo è stata la Juve, che però, secondo Condò, ha ottenuto un risultato: "Convincendo l’Inter di poter competere fino alla fine per lo scudetto — e alla fine del girone d’andata c’erano solo due punti fra loro — l’ha costretta a spendere troppe energie in campionato, fino a trovarsi vuota la sera di Madrid. L’Inter di quest’anno valeva la semifinale di Champions (e una volta lì, può succedere di tutto), ma l’obiettivo prioritario dello scudetto della seconda stella — mai in pericolo, ma a gennaio sembrava di sì — ha riscosso il suo tributo. La forza di Simone Inzaghi, che entra dalla porta grande nel ristretto club degli allenatori scudettati, è stata quella di non abbandonare mai i suoi uomini, nemmeno nei momenti delicati del titolo perduto due anni fa o delle sconfitte seriali dell’anno scorso: lo spogliatoio l’ha sempre seguito perché sapeva di potersi fidare, e perché i miglioramenti individuali erano e sono un riscontro quotidiano". Chiosa con elogio ai dirigenti: "L’evidenza ci dice che Steven Zhang non ha risolto i suoi problemi in Cina, ma che il suo management riesce a farne benissimo a meno".

Sezione: News / Data: Mar 23 aprile 2024 alle 12:50
Autore: Christian Liotta
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