"Io non sono pirla". José Mourinho si presentava così alla stampa italiana il 3 giugno del 2008, nella sua prima conferenza da tecnico dell'Inter. A distanza di quasi sette anni lo Special One ricorda la frase che accese subito i cuori dei tifosi nerazzurri, ai microfoni di 'Condò Confidential' in onda su Gazzetta Tv: "Sapevo di andare all'Inter già da qualche mese. Per lavorare bene avevo bisogno di saper comunicare il prima possibile. Ho avuto un professore fantastico, Gianluca, che lavorava nell'ambasciata italiana a Lisbona. Abbiamo avuto due mesi intensi di studio e così mi ha dato la possibilità di fare quella conferenza stampa e di comunicare il primo giorno con la squadra nel 'mio' italiano. Mi ha preparato veramente bene, anche con espressioni di calcio e con un po' di milanese. Ovviamente era difficile per me, ma con qualche parola ci sono riuscito".

"Prostituzione intellettuale", "rumore dei nemici", "zero tituli": tutte espressioni spontanee? "Sì, tutte spontanee. Il calcio è emozione, io dopo quindici anni non posso ancora viverlo senza passione. Ovviamente mi riesco a controllare un po' di più, ma l'emozione ci deve essere sempre. E così è stata la carriera all'Inter, piena di emozioni, momenti difficili e drammatici, e parole uscite dal cuore".

Tornando alla forza della sua Inter: "La cosa fondamentale - spiega il portoghese - è stare bene in senso globale. Io sono un allenatore ma sono anche un uomo. La tua vita e la famiglia devono essere felici, devono piacerti i giocatori che hai, il rapporto con i tifosi che sono una parte importante della tua vita e del club. Il rapporto con i tifosi dell'Inter è stato unico sin dal primo giorno e ho trovato anche una squadra incredibile".

Una battuta sulla 'maledizione' di Julio Cesar legata allo scudetto del 2009: "Avevamo tutti un rapporto fantastico. Qualche volta penso all'Inter, il rapporto con i giocatori era qualcosa di veramente speciale, perché è difficile lavorare con me. Sono molto critico con i giocatori, mi piace creare in loro una personalità forte, presso ed esigo, mi piace il confronto, la discussione forte. All'Inter ho incontrato già delle personalità forti e questo ha reso il mio lavoro più facile. Avevamo due obiettivi: quello basico era continuare a dominare in Italia, ma sapevo che non era questo che mi aveva portato a Milano. Sapevo che nella prima stagione la squadra non era preparata per vincere la Champions, né psicologicamente né tatticamente. Il mio lavoro è stato più facile perché ho incontrato un gruppo fantastico".

Poi l'addio fotografato dall'abbraccio con Materazzi: "Dall'inizio della mia carriera ho avuto obiettivi chiari. Dopo il Portogallo volevo l'Inghilterra, poi la mia sfida era l'Italia. Avevo rispetto degli allenatori italiani: Trapattoni, Sacchi, tutti tecnici con carriere fantastiche. Volevo vincere in Inghilterra, Spagna e in Italia. Ma all'Inter ho lasciato qualcosa di speciale, Herrera e Mourinho sono i punti più alti della storia del club. Sono uscito piangendo, ma anche l'abbraccio con Moratti fa capire che ha accettato che con lui e con tutti loro ho fatto qualcosa di fantastico".

Mourinho direbbe di no ad un'altra avventura italiana in una squadra che non sia l'Inter? "Non posso dire questo perché il calcio è calcio e io sono un professionista. Se un giorno voglio allenare e sono senza squadra, l'Inter non mi vuole oppure ha già un bravo allenatore... L'Inter andrebbe sempre prima rispetto a un'altra squadra italiana. In un altro club italiano allenerei da professionista, all'Inter ci sarebbero in più la passione e il rapporto che ho con la storia". 

Chiusura sul suo record di vittorie in casa: "Ho perso dopo nove anni al Real Madrid, due volte in tre stagioni. Qui nel Chelsea una volta la stagione scorsa. In quattrodici anni ho perso in casa quattro volte in campionato. È una questione di mentalità e di fiducia. Ricordo Inter-Siena 4-3, avevamo degli infortunati e in panchina c'erano i 'bambini'. Ho messo Samuel centravanti, alla fine lui mi domanda 'adesso vado dietro?', io gli dico 'no, stai lì avanti'. È una questione globale. Senza fortuna non fai nulla. Nell'ultima partita Chelsea-Everton Cech ha fatto una parata miracolo, se subisci gol magari quella partita la perdiamo. Il rapporto squadra-tifosi gioca un ruolo fondamentale. Non ho paura di perdere? Ho paura di non stare bene con me stesso e di non essere contento perché non ho preparato bene la partita, perché non ho motivato i giocatori o non ho fatto i cambi giusti. Per questo preparo ogni partita con la stessa determinazione. È difficile per me pensare che dopo le sconfitte il mondo sia finito, ogni giorno è un nuovo giorno".

Sezione: Copertina / Data: Ven 27 febbraio 2015 alle 22:00
Autore: Daniele Alfieri / Twitter: @DaniAlfieri
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