"Ad un certo punto della mia vita ho cominciato a far fatica a stare tanto tempo in un posto. Dopo due o tre anni fermo, mi viene voglia di andare. È il periodo di tempo del quale una persona ha bisogno per inserirsi, imparare la lingua, capire la mentalità e forse fare le cose che deve fare. Non è solo l’idea di viaggiare per viaggiare, è la sensazione che dopo un po’ un luogo sembra un territorio conquistato. E allora mi viene voglia di sapere o di vivere una cosa diversa". Parla così Leonardo, intervistato in esclusiva dal Corriere dello Sport. Nelle sue parole anche il ricordo dell'esperienza positiva all'Inter e porte aperte per il futuro a nuove avventure. 
 
Come è stata l’esperienza da allenatore? 
"E’ nata quasi per caso, o per intuizione di Galliani. Ero dirigente al Milan, dopo aver smesso di giocare e a un certo punto emerse il bisogno della società di cambiare. Carlo Ancelotti aveva già fatto tutto, un ciclo più che vincente, era venuto però il momento di ricostruire e pensarono di prendere una persona di casa per gestire la squadra, in un momento di transizione. Galliani mi ha parlato più di una volta e io ho rifiutato più di una volta. Ma sono molto contento di non aver detto di no, alla fine. Vivere il campo da allenatore è veramente affascinante, lo dividi con ragazzi che hanno meno età di te, che stanno vivendo quello che tu hai vissuto. Ogni tre giorni una storia diversa, ogni tre giorni devi gestire sentimenti, idee, partite che appassionano ed emozionano milioni di persone. E’ affascinante, veramente". 
 
Perché lei è andato via dopo un anno da tutte e due le squadre? Avendo raggiunto, peraltro, dei buoni risultati? 
"Con il Milan abbiamo passato un ciclo di quattordici anni, ci sono stato come giocatore, come dirigente e dopo come allenatore quindi, ad un certo punto, ho considerato che i problemi emersi erano anche frutto di questo lungo tempo vissuto. Penso che fosse giusto finire perché si era creata una situazione interna difficile, in cui, specialmente il presidente Berlusconi, era arrivato forse al limite. Mi sembrava fosse una situazione difficile, per continuare. Ma forse ha pesato anche il mio costante bisogno di cambiare". 
 
C’erano interferenze sul suo lavoro? 
"Considero le interferenze, in una squadra di calcio, una cosa più che normale. Era una questione di modalità, non di interferenze. Non posso pensare che un presidente che investe i suoi soldi, che ha passione e competenza, non possa dire la sua o non possa scambiare con l’allenatore le sue idee. Non è un problema dire “Guarda che deve giocare Leo e l’amico di Leo”. Il problema per me è stata solo una questione di modalità, che penso debbano essere in un certo modo. Altrimenti diventa più difficile continuare". 
 
Invece con l’Inter? 
"La prima cosa che ho fatto, quando Moratti mi ha chiamato, è stato avvertire Galliani, persona alla quale sono molto legato. Lavorare con lui è stata un’università del calcio, ho imparato tanto e mi ha dato la possibilità di collaborare con lui e dopo di diventare allenatore. Ci sono tante cose per le quali sono grato al Milan. Per quello sono rimasto quattordici anni. E’ stata una cosa molto legata a Moratti, il passaggio all’Inter. Moratti è una persona che stimo e conosco da tanti anni, da quando io giocavo al Milan. Dopo sei mesi che ero andato via dai rossoneri si aprì anche all’Inter il bisogno di cambiare. E pensarono a me. Mi arrivò questa chiamata. Io dissi a Moratti “Presidente, non scherziamo”. Ma a Massimo Moratti e alla sua famiglia non potevo dire di no. E’ stata poi una esperienza meravigliosa". 
 
Poi perché è andato via? 
"Non si metta a ridere se le sintetizzo così i miei anni da ex calciatore: smetti di giocare e ti danno l’opportunità di fare il dirigente al Milan. Come dico di no? Impossibile. Bene. Faccio il dirigente e mi chiedono di diventare l’allenatore dei rossoneri. È una scelta più rischiosa, ma come fai a dire di no? Stai sei mesi fuori e l’Inter ti propone di guidare la squadra. Come fai a dire di no? E dopo sei mesi arriva una persona giovane, in gamba, che ti invita nel suo Paese, in un altro continente. Anche in questo caso difficile dire di no. Informai Moratti, ha saputo passo per passo quello che stava succedendo. Io arrivo là e lo sceicco mi dice “Guarda che io sono innamorato di Parigi, innamorato del calcio, vorrei fare del Paris Saint Germain un squadra tra le prime cinque del mondo”. E mi dice “Qua c’è l’organigramma e tu scegli dove vuoi stare”. Io ero l’allenatore in quel momento, quindi lui poteva pensare anche che volessi quel ruolo. Ma c’era bisogno di una persona che facesse tutto. Non che andasse in campo, altrimenti bisognava trovarne un’altra per fare tutto il resto. Mi propone questa cosa, io dico di no. Poi torno a Milano, incontro il presidente Moratti, che mi dice “Leo hai perso un’opportunità unica, una cosa meravigliosa: hai fatto il dirigente, l’allenatore, ora ti propongono questo incarico. Ragiona bene, ragiona per te. Sappi che io non mi arrabbierò mai con te. Ho cambiato tanti allenatori, capisco la situazione”. E’ stata una decisione difficile da prendere, ma la benedizione del presidente mi ha liberato dai sensi di colpa".  
 
Mi racconta la verità su Ronaldo ’98 finale dei mondiali? 
"Ronaldo è andato a letto a dormire come facciamo tutti, il giorno della partita. Ci si sveglia, si mangia poi si va a riposare, ci si sveglia verso le quattro per giocare, poi alle otto e mezzo la partita. Ronaldo va a dormire e quando si addormenta ha questa convulsione. Roberto Carlos che era con lui vede direttamente, è stato il primo, comincia a urlare e a chiamare tutti. Siamo arrivati in tanti, abbiamo condiviso quella situazione drammatica. Dopo la convulsione lui si addormenta. Il dottore lo ha controllato, ha verificato che non ci fossero pericoli immediati. Lui si risveglia alle cinque e non sa ancora cosa ha avuto. Cosa raccontare? Cosa non raccontare? Si arriva alla conclusione che doveva andare all’ospedale per farsi controllare. Intanto noi facciamo riunioni con Edmundo che doveva giocare al suo posto. Stiamo per uscire per il riscaldamento allo stadio… In quel momento arriva Ronaldo in macchina e dice che è tutto a posto e vuole giocare. Si mettono in saletta con l’allenatore, esce e gioca. Sono passati venti minuti, nessuno di noi ha fatto il riscaldamento, lui lo fa dentro lo spogliatoio e va a giocare. Immagini quello che può passare nella testa di tutti. Arriva non arriva, gioca o non gioca, beve o non beve, parla non parla. Un casino, è andata così la preparazione della partita. Finale nella quale becchiamo tre gol dalla Francia".  
 
Ha voglia di tornare ad allenare? 
"E’ un momento particolare. Ho corso tanto, fino ad oggi, e ho avuto la fortuna di avere tre figli in questo periodo. Però la verità è che il calcio è stata la cosa più importante dei miei giorni. E’ brutto dirlo, ma è stato così. Per la frenesia del nostro mondo e per la cultura che abbiamo, io ho cominciato a quattordici anni fino ai quarantatré, vivendo così. Io per esempio non ero presente quando è nato il mio primo figlio e quando è nata la mia seconda. Nel primo caso ero ai mondiali, nel secondo ero in Giappone, lei ha anticipato di dieci giorni e non ho fatto in tempo ad arrivare. Perché il calcio era quello, tutta la vita. Ma ora sono un uomo diverso. Ho vissuto e l’esperienza non mi è passata addosso come una pioggia. E’ cambiato tutto, molto. Bere un bicchiere di vino a ventiquattro anni non è come berlo a quarantaquattro. Oggi sto godendo la mia nuova famiglia, mia moglie, i miei figli. Per loro ho lasciato Parigi e sono tornato a Milano. Non posso negare che mi viene voglia di produrre, di fare e non posso neanche negare che mi sento in grado di fare".  
 
Allenare in Italia terrebbe insieme le due cose? 
"Sì, è vero. Ho dato la mia disponibilità alla Roma due anni fa. Poi la Roma ha fatto altre scelte. Ho dato la mia disponibilità all’Inter e l’Inter ha fatto altre scelte e non ho dato più disponibilità a quasi niente altro. Valuterei se tornare al Paris Saint Germain, nel caso avesse bisogno, perché il mio rapporto con loro è ancora molto forte. Alle altre cose ho detto di no e non mi pento".  
 
Chi sono i ragazzi del calcio italiano che le sembrano più forti più promettenti oggi? 
"Gagliardini mi ha fatto veramente una grande impressione. E’ passato dall’Atalanta all’Inter come se niente fosse e mi è piaciuto molto come personalità, come stile, come modo di giocare. Belotti è un giocatore molto più fisico che tecnico, ma sono colpito dalla sua voracità nel voler fare gol. Bernardeschi in questi ultimi mesi ha trovato la sua dimensione, ha conquistato, anche facendo guerra, i suoi spazi per giocare con un po’ più di libertà. Ora arriva facilmente all’assist e sta guadagnando tanto spazio. Penso che questi tre siano i tre ragazzi italiani più promettenti". 

Sezione: In Primo Piano / Data: Sab 18 febbraio 2017 alle 08:30 / Fonte: Corriere dello Sport
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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